venerdì 19 dicembre 2008

IL NATALE DI MARTIN (L.TOLSTOJ)

In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi.Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.- Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.- Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. - Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?- Chi sei? - chiese Martin.- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola. - Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

NON C'E' AMORE DENTRO

Il postino suonò due volte. Mancavano cinque giorni a Natale. Aveva fra le braccia un grosso pacco avvolto in carta preziosamente disegnata e legato con nastri dorati.
«Avanti», disse una voce dall'interno.
Il postino entrò. Era una casa malandata: si trovò in una stanza piena d'ombre e di polvere. Seduto in una poltrona c'era un vecchio.
«Guardi che stupendo paccone di Natale!» disse allegramente il postino.
«Grazie. Lo metta pure per terra», disse il vecchio con la voce più triste che mai.
Il postino rimase imbambolato con il grosso pacco in mano. Intuiva benissimo che il pacco era pieno di cose buone e quel vecchio non aveva certo l'aria di spassarsela bene. Allora, perché era così triste?
«Ma, signore, non dovrebbe fare un po' di festa a questo magnifico regalo?».
«Non posso... Non posso proprio», disse il vecchio con le lacrime agli occhi. E raccontò al postino la storia della figlia che si era sposata nella città vicina ed era diventata ricca. Tutti gli anni gli mandava un pacco, per Natale, con un bigliettino: «Da tua figlia Luisa e marito». Mai un augurio personale, una visita, un invito: «Vieni a passare il Natale con noi».
«Venga a vedere», aggiunse il vecchio e si alzò stancamente.
Il postino lo seguì fino ad uno sgabuzzino. Il vecchio aprì la porta.
«Ma...» fece il postino.
Lo sgabuzzino traboccava di regali natalizi. Erano tutti quelli dei Natali precedenti. Intatti, con la loro preziosa carta e i nastri luccicanti.
«Ma non li ha neanche aperti!» esclamò il postino allibito.
«No», disse mestamente il vecchio. «Non c'è amore dentro».

(BRUNO FERRERO)

A CHI IMPORTA ?

Ogni mese, un discepolo era solito scrivere al Maestro un breve resoconto del suo progresso.
Il primo mese, gli scrisse: “Provo un’espansione di coscienza e sperimento la mia unità con l’universo.”
Il Maestro sorrise e gettò la lettera nel cestino.
Il mese seguente, il discepolo gli scrisse: ”Ho finalmente scoperto che il Divino è presente in tutte le cose”.
Il Maestro rimase impassibile.
Al terzo mese, le parole del discepolo esprimevano con entusiasmo: ”Il mistero dell’Uno e dei molti mi è stato rivelato e sono in uno stato di totale meraviglia”.
Il Maestro scosse la testa e ancora una volta gettò via la lettera.
Nella lettera seguente il discepolo asseriva: “Nessuno è mai nato, nessuno vive, nessuno muore, perchè l’ego non esiste”.
Il Maestro alzò le braccia al cielo in un gesto di disperazione.
Passò un mese, poi due, poi cinque e infine, dopo un anno di silenzio, il Maestro ritenne fosse giunto il momento di ricordare al discepolo che era suo dovere tenerlo informato sul suo progresso spirituale.
Il discepolo scrisse: ”A chi’ importa?”
Quando il Maestro lesse questa frase, il suo volto s’illuminò di profonda soddisfazione.

Tratto da: Non più confusione, di Ramesh Balsekar, Edizioni Laris

L'UOMO DELLA CAVERNA

Immagina degli uomini prigionieri e chiusi nelle profondità di una caverna, gambe e collo incatenati fin dall'infanzia, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro, impossibilitati a volgere lo sguardo indietro, dove arde un enorme fuoco. Tra la luce del fuoco e gli uomini incatenati vi è una strada rialzata e un muricciolo, lungo il quale alcuni uomini portano forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Gli uomini incatenati non possono conoscere la vera esistenza degli uomini sulla strada poiché ne percepiscono solo l'ombra proiettata dal fuoco sulla parete di fronte e l'eco delle voci, che scambiano per la realtà. Mentre un personaggio esterno avrebbe un'idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno, sono portati ad interpretare le ombre "parlanti" come oggetti, animali, piante e persone reali. Se un uomo incatenato potesse finalmente liberarsi dalle catene potrebbe volgere lo sguardo e vedere finalmente il fuoco, venendo così a conoscenza dell'esistenza degli uomini sopra il muricciolo di cui prima intendeva solo le ombre. In un primo momento, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del fuoco ed egli proverebbe dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre. Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto ad uscire dalla caverna e venisse esposto alla diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s'irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo. Con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti stessi. Successivamente, egli potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti con maggior facilità che di giorno. Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell'acqua, e capirebbe che « è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni vedevano ». Resosi conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna per mettere al corrente e liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un senso di pietà: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli altri prigionieri ad essere liberati. Infatti, dovendo riabituare gli occhi all'ombra, dovrebbe passare del tempo prima che il prigioniero liberato possa vedere distintamente anche nel fondo della caverna; durante questo periodo, molto probabilmente egli sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri, in quanto sarebbe tornato dall'ascesa con "gli occhi rovinati". Inoltre, questa sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sulla sua opera di convincimento ed, anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se tentasse di liberarli e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell'accecamento e la fatica della salita per andare ad ammirare le cose da lui descritte. L'uomo liberato non potrà ormai tornare indietro e concepire il mondo come prima, limitandosi alla sola comprensione delle ombre.

Platone, libro VII, 516 c – d

lunedì 8 dicembre 2008

VOLA CHI OSA FARLO

“Promettimi che non mangerai l’uovo” stridette aprendo gli occhi.
“Prometto che non mi mangerò l’uovo” ripetè Zorba.
“Promettimi che ne avrai cura finchè non sarà nato il piccolo” stridette sollevando il capo.
“Prometto che avrò cura dell’uovo finchè non sarà nato il piccolo”.
“E promettimi che gli insegnerai a volare” stridette guardando fisso negli occhi il gatto.
Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza.
“Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca di aiuto” miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto.

“Vola solo chi osa farlo”.

(Storia di una gabbianella e di un gatto di Luis Sepulveda)

LE QUATTRO CANDELE

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
'IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!'
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
'IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa'.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
'IO SONO L'AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano E non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!'
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

...Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
'Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!'
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
'Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA'

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

(Paolo Coelho)

IL PROFESSORE E LA SABBIA

Un professore stava davanti alla sua classe di filosofia e aveva davanti alcuni oggetti..Quando la classe incominciò a zittirsi.. prese un grande
barattolo di maionese vuoto e iniziò a riempirlo di palline da golf. Chiese poi agli studenti se il barattolo fosse pieno e questi risposero che lo era. Il professore allora prese un barattolo di ghiaia e la rovesciò nel barattolo di maionese, lo scosse leggermente e i sassolini si posizionarono negli spazi vuoti tra le palline da golf.
Chiese di nuovo agli studenti se il barattolo fosse pieno e questi concordarono che lo era.
Il professore prese allora una scatola di sabbia e la rovesciò nel barattolo, ovviamente la sabbia si sparse ovunque all'interno.
Chiese ancora una volta se il barattolo fosse pieno e gli studenti risposero con un unanime 'si'.

Il professore estrasse quindi due bicchieri di vino da sotto la cattedra e rovesciò il loro intero contenuto nel barattolo andando così effettivamente a riempire gli spazi vuoti nella sabbia; gli studenti risero.

Ora..disse il professore non appena la risata si fu placata..voglio che consideriate questo barattolo come la vostra vita: le palle da golf sono le cose importanti: la vostra famiglia, i vostri bambini, la vostra salute, i vostri amici e le vostre passioni, le cose per cui, se anche tutto il resto andasse perduto, e solo queste rimanessero, la vostra vita continuerebbe ad essere piena; i sassolini sono le altre cose che hanno importanza come il vostro lavoro, la casa, la macchina...la sabbia è tutto il resto, le piccole cose. Se voi mettete nel barattolo la sabbia per prima non ci sarà spazio per la ghiaia e nemmeno per le palle da golf, lo stesso vale per la vita, se spendete tutto il vostro tempo e le vostre energie dietro le piccole cose non avrete più spazio per le cose che sono importanti per voi.

Prestate attenzione alle cose che sono indispensabili per la vostra felicità; giocate con i vostri bambini, godetevi la famiglia e genitori fin che ci sono.. portate il vostro compagno/a fuori a cena... e non solo nelle occasioni importanti, tanto ci sarà sempre tempo per pulire la casa o fissare gli appuntamenti. Prendetevi cura per prima delle palle da golf,le cose che contano davvero. Fissate le priorità... il resto è solo sabbia.
(dal web)

I SEMI

Due semi si trovavano fianco a fianco nel fertile terreno primaverile.
Il primo seme disse: «Voglio crescere! Voglio spingere le mie radici in profondità nel terreno sotto di me e fare spuntare i miei germogli sopra la crosta della terra sopra di me…
Voglio dispiegare le mie gemme tenere come bandiere per annunciare l’arrivo della primavera… Voglio sentire il calore del sole sul mio volto e la benedizione della rugiada mattutina sul miei petali!»
E crebbe.
L’altro seme disse: «Ho paura. Se spingo le mie radici nel terreno sotto di me, non so cosa incontrerò nel buio. Se mi apro la strada attraverso il terreno duro sopra di me posso danneggiare i miei delicati germogli… E se apro le mie gemme e una lumaca cerca di mangiarsele? E se dischiudessi i miei fiori, un bambino potrebbe strapparmi da terra.
No, è meglio che finché ci sarà sicurezza.»
E aspettò.
Una gallina che raschiava il terreno d’inizio primavera in cerca di cibo trovò il seme che aspettava e subito se lo mangiò.

Se vuoi ottenere grandi risultati nella vita devi saper vivere con l’incertezza di quello che accadrà perché solo così potrai ambire a mete ambiziose

(Bruno Ferrero)

UN PIATTO DI LENTICCHIE

Il filosofo Diogene stava cenando con un piatto di lenticchie.
Lo vide il filosofo Aristippo che viveva nell'agiatezza adulando il re.
Aristippo disse: "Se tu imparassi ad essere ossequioso con il re non dovresti vivere di robaccia come le lenticchie".
Rispose Diogene: "Se tu avessi imparato a vivere di lenticchie non dovresti adulare il re".
(dal web)

IL CLOWN

Nello studio di un celebre psichiatra si presentò un giorno un uomo apparentemente ben equilibrato, serio ed elegante. Dopo alcune frasi, però, il medico scoprì che quell'uomo era intimamente abbattuto da un profondo senso di malinconia e da una tristezza continua ed assillante.
Il medico iniziò con grande coscienziosità il suo lavoro terapeutico e, al termine del colloquio, disse al suo nuovo paziente: "Perché non va al circo che è appena arrivato nella nostra città? Nello spettacolo si esibisce un famosissimo clown che ha fatto ridere e divertire mezzo mondo: tutti parlano di lui, perché è unico. Le farà bene, vedrà".
Allora quell'uomo scoppiò in lacrime, dicendo: "Quel clown, sono io".
(dal web)

IL MITO DI ORFEO

Orfeo ( significa: colui che è solo) era un poeta e un musico. Le Muse gli avevano insegnato a suonare la lira, ricevuta in dono da Apollo.La sua musica e i suoi versi erano così dolci e affascinanti che l'acqua dei torrenti rallentava la sua corsa, i boschi ballavano, gli uccelli, commossi, non avevano la forza di volare e cadevano, le ninfe uscivano dalle querce e le belve dalle loro tane per ascoltarlo.
Euridice era una ninfa e sua sposa.Un giorno, mentre correva per sfuggire alle insidie di Aristeo, venne morsa da un serpente e morì. Orfeo, profondamente innamorato, decise di scendere nell'Ade, l'oscuro regno dei morti, a riprendersela.Con la sua poesia e la sua musica riuscì a commuovere tutti:Caronte lo traghettò sull'altra riva dello Stige, il fiume infernale;Cerbero, l'orribile cane con tre teste, non abbaiò;Le Erinni, terribili dee infernali, piansero;I dannati cessarono i loro tormenti... e persino il dio Ade e sua moglie Persefone s'inchinarono al canto d'amore e concessero ad Orfeo di riportare Euridice con sé, ma a un patto:
Euridice avrebbe dovuto seguire Orfeo lungo la strada buia degli inferi, senza che lui si voltasse a guardarla, non prima di essere giunti nel mondo dei vivi.Iniziarono la salita.Avanti era Orfeo, lo seguiva Euridice e infine Hermes, che doveva controllare.Erano ormai giunti alla meta, quando Orfeo, temendo di averla persa e preso dal forte desiderio di vederla, si voltò.Così Euridice fu risucchiata nell'Ade ed inutile fu, per Orfeo, cercare d'afferrargli le mani nel tentativo di trattenerla.Così, Euridice, morì per la seconda volta.
Orfeo rifiutò in seguito l'amore di tutte le femmine. Poiché la sua musica distoglieva i mariti dai doveri coniugali, dovette subire la vendetta delle donne che fu attuata per mano delle Menadi, sacerdotesse di Dionisio. Lo uccisero, lo fecero a pezzi e lo gettarono nel fiume Ebro.Orfeo non morì del tutto e la sua testa, pur separata dal corpo, continuerà a cantare per sempre.
L’amore è vita, per questo Orfeo scende nell’Ade a riprendersi Euridice.Ottiene questa possibilità alla condizione di non voltarsi a guardarla prima che abbiano raggiunto il regno dei vivi.Questo patto, questa richiesta apparentemente così semplice, è in realtà, impossibile da rispettare.Orfeo ama e può amare solo a condizione di conoscere.E’ costretto a voltarsi a guardare Euridice dall’amare stesso.Nessuno, infatti, può scindere l'amore dalla conoscenza.E' una contraddizione conoscere senza amare, così come è pazzia amare senza vivere.
Amare non è un dato acquisito una volta per tutte. Amare necessita di conferme, ad ogni istante... di qui il bisogno ineludibile, per Orfeo, di voltarsi… per capire se era amato.Secondo il mito, non avrebbe potuto mai riavere Euridice, un Orfeo innamorato...ma è anche impossibile amare una persona se questa non vive.Euridice avrebbe potuto salvare entrambi, parlando, ( non era proibito) per attestare la sua presenza.
La traduzione è di un premio Nobel italiano, Salvatore Quasimodo

"Mentre fuggiva da te a precipizio lungo il fiume,
non vide, la fanciulla già segnata da morte,
nell’alta erba, il serpente che abita le rive.
E il coro delle compagne Driadi riempì di lamenti
I monti più elevati; e piansero le vette del Ròdope
E gli alti Pangei e la terra guerriera di Reso,
e piansero i Geti e l’Ebro e l’attica Oritia.
E consolando con la cetra l’amore perduto,
te dolce sposa, te sul lido deserto,
te al nascere, te al morire del giorno, egli cantava.
Ed entrò pure nelle gole del Tanaro, profonda
Porta di Dite, e nella selva cupa di nera paura,
e s’accostò ai Mani, e al loro re tremendo,
e a chi non sa addolcirsi alle preghiere umane.
E subito dal più profondo Erebo, commosse al canto,
ombre venivano leggere e parvenze di morti:
a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano
tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno
li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi
di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle,
e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori.
E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito,
e la palude lurida con la sua acqua pigra
li stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.
Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti
del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi;
e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte,
e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento.
E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,
ed Euridice veniva verso la luce del cielo
seguendolo alle spalle (così impose Proserpina),
quando una follia improvvisa lo travolse,
da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare.
Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,
la sua Euridice si voltò a guardare.
Così fu rotta la legge del duro tiranno,
e tre volte un fragore s’udì per le paludi d’Averno.
“Quale follia” ella disse, “rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi.
E ora, addio: sono trascinata dentro profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti”.
Disse; e d’improvviso svanì come fumo nell’aria
leggera, e non vide più lui che molte cose
voleva dirle e che invano abbracciava le ombre;
ma chi traghetta le acque dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude".

(Virgilio, Orfeo ed Euridice - Georgiche) traduzione di Salvatore Quasimodo

sabato 29 novembre 2008

AMORE: INFERNO, PURGATORIO O PARADISO

IN QUALE GIRONE DANTESCO DELL'AMORE TI TROVI ?

Inferno
Non sono stato amato e quindi non mi amo.
Ho bisogno d’amore ma ho paura d’amore. Vorrei essere amato ma ho paura di essere rifiutato un’altra volta. Non mi apro.
Non mi amo e quindi non riesco ad amare.
Vorrei amare, vorrei aprirmi ma ho paura di farlo, non sono capace di farlo, credo di non esserne in grado e allontano chi prova ad amarmi.
Non riesco ad amare e quindi non mi amano.
Non mi amano e quindi non mi amo… e il circolo continua.

Purgatorio
Non sono stato amato ma provo ad amarmi.
Provo ad amarmi e provo ad aprirmi.
Mi apro e vinco la paura del rifiuto.
Prendo fiducia in me e mi apro un altro po’.
Mi apro e vedo che non è così terrorizzante, che si può fare.
E anche se non sono stato amato provo ad amarmi…
e il circolo progredisce.

Paradiso
Mi amo perché sono stato amato.
Mi hanno fatto sentire importante e adesso lo sento anch’io.
Mi amo e sono amato.
Gli altri sentono la mia positività e il mio valore che anch’io sento. Così è facile per loro amarmi e aprirsi.
E anche per me è facile aprirmi e farmi amare.
Sono amato e mi amo.
E più intesso relazioni d’amore e più sento che sono capace d’amare, che sono una persona preziosa e importante…
e il circolo continua.»
(dal web)

SAPER ASCOLTARE

Mauro proveniva da una buona famiglia, con genitori amorevoli, due fratelli e una sorella, che avevano successo nella vita scolastica e sociale. Vivevano in un bel quartiere e Mauro aveva tutto quello che un ragazzino può desiderare. Ma alle elementari, Mauro fu subito etichettato come soggetto «speciale». Nelle medie era il «disadattato piantagrane». Alle scuole superiori cominciò a inanellare espulsioni e voti disastrosi. Una domenica, un insegnante incrociò la famiglia e disse:
«Mauro sta facendo molto bene in questo periodo. Siamo molto soddisfatti di lui».
«Forse ci state confondendo con un'altra famiglia...» disse il padre.
«Il nostro Mauro non ne azzecca mai una. Siamo molto imbarazzati e non sappiamo capire perché».
Mentre l'insegnante se ne andava, la madre osservò:
«Però, a pensarci bene, Mauro non si è cacciato nei guai nell'ultimo mese.
Inoltre è sempre andato a scuola presto e si è sempre fermato più del necessario.
Che cosa starà succedendo?».
Alla consegna della prima pagella, i genitori di Mauro si aspettavano voti bassi e note insoddisfacenti sul comportamento.
Invece sulla pagella c'erano voti più che sufficienti e una menzione speciale in condotta.
Mamma e papà erano sconcertati.
«A chi ti sei seduto vicino, per avere questi voti?» chiese papà con sarcasmo.
«Ho fatto tutto da solo» rispose umilmente Mauro.
Perplessi e non completamente convinti, i genitori di Mauro lo riportarono a scuola per parlare con il preside.
Egli assicurò loro che Mauro stava andando molto bene.
«Abbiamo una nuova insegnante di sostegno, e sembra che lei abbia una particolare influenza su Mauro» disse.
«Penso che dovreste conoscerla».
Quando il trio si avvicinò, la donna aveva il capo abbassato.
Le ci volle un istante per accorgersi che aveva visite.
Quando lo capì, si alzò in piedi e iniziò a gesticolare con le mani.
«Cos'è questo?» chiese indignato il padre di Mauro.
«Linguaggio dei segni? Questa donna è sordomuta! ».
«Ecco perché è così straordinaria» disse Mauro, mettendosi in mezzo.
«Lei fa molto di più, papà. Lei sa ascoltare! » .
(dal web)

RELATIVITA'

Cara Mamma, caro Papa’, sono ormai tre mesi che sono ritornata all’universita’ e non ho ancora trovato il tempo per scrivervi.
Mi scuso per avervi trascurato ma ora vi voglio raccontare tutto.
Prima di leggere, pero’, sedetevi; mi raccomando non continuate a leggere prima di esservi messi seduti, d’accordo? Ora sto abbastanza bene.
La frattura ed il trauma cranico che mi sono provocata saltando dalla finestra del dormitorio in fiamme, poco dopo il mio arrivo, sono ormai quasi guariti.
Sono restata all’ospedale solo 2 settimane e la vista mi e’ ritornata quasi normale.
Anche le forti emicranie che mi colpivano in continuazione non le ho piu’ che una volta alla settimana.
Fortunatamente il garzone del benzinaio che e’ in fondo alla strada aveva visto tutto.
E’ lui che ha avvisato i pompieri e chiamato l’ambulanza.
E’ anche venuto spesso a trovarmi all’ospedale e, poiche’ dopo l’incendio non sapevo dove alloggiare, e’ stato cosi’ gentile da propormi di andare ad abitare da lui.
In realta’ non e’ che una cameretta in un sottoscala ma e’ piuttosto carina.
Lui e’ un ragazzo formidabile e ci siamo subito innamorati.
Abbiamo deciso di sposarci: non abbiamo ancora fissato la data ma lo faremo di sicuro prima che il mio pancione cominci a vedersi.
E si cari genitori, sono incinta.
Io so bene a qual punto voi eravate ansiosi di diventare nonni e sono sicura che accoglierete questo bambino con tutto l’amore e la tenerezza che mi avete riservato quando ero piccola.
La sola cosa che ritarda la nostra unione e’ la piccola infezione che ha il mio fidanzato e che ci impedisce di effettuare le analisi pre-nuziali.
Anche io, scioccamente, mi sono fatta contagiare ma tutto si risolvera’ presto con le iniezioni di penicillina che faccio ogni giorno.
So bene che accoglierete questo ragazzo a braccia aperte nella nostra famiglia.
E’ una persona molto gentile e, sebbene non abbia fatto molti studi, e’ molto ambizioso.
Anche se non e’ della nostra stessa razza e religione, conoscendo la vostra larghezza di idee sono certa che non darete alcuna importanza al fatto che la sua pelle sia un po’ piu’ scura della nostra.
Sono sicura che lo amerete come io lo amo.
Anche i suoi genitori sono della gente per bene: sembra che suo padre sia un famoso mercenario nel villaggio africano dove e’ nato.
Bene, ora che avete letto tutto, dovete sapere che non c’e’ stato alcun incendio al dormitorio, non ho avuto nè frattura cranica nè commozione cerebrale, non sono andata all’ospedale, non sono incinta, non sono fidanzata, non ho la sifilide e non ci sono uomini dalla pelle scura nella mia vita.
E’ solo che sono stata bocciata in storia e filosofia e in questa occasione mi e’ sembrato opportuno aiutavi a riflettere sulla relativita’ delle cose.
Vi saluto e vi abbraccio forte forte.
(DAL WEB)

NON GIUDICARE

Due passerotti se ne stavano beatamente a prendere il fresco sulla stessa pianta, che era un salice. Uno si era appollaiato sulla cima del salice, l'altro in basso su una biforcazione dei rami.
Dopo un po', il passerotto che stava in alto, tanto per rompere il ghiaccio, dopo la siesta disse:
"Oh, come sono belle queste foglie verdi!".
Il passerotto che stava in basso la prese come una provocazione. Gli rispose in modo seccato:
"Ma sei cieco? Non vedi che sono bianche!".
E quello di sopra, indispettito: "Tu sei cieco! Sono verdi!".
E l'altro dal basso con il becco in su: "Ci scommetto le piume della coda che sono bianche.
Tu non capisci nulla! Sei matto!".
Il passerotto della cima si sentì bollire il sangue e senza pensarci due volte si precipitò sul suo avversario per dargli una lezione. L'altro non si mosse. Quando furono vicini, uno di fronte all'altro, con le piume del collo arruffate per l'ira, prima di cominciare il duello ebbero la lealtà di guardare nella stessa direzione, verso l'alto.
Il passerotto che veniva dall'alto emise un "oh" di meraviglia: "Guarda un po' che sono bianche!".
Disse però al suo amico: "Prova un po' a venire lassù dove stavo prima".
Volarono sul più alto ramo del salice e questa volta dissero in coro:
"Guarda un po' che sono verdi".

Non giudicare nessuno se prima non hai camminato un'ora nelle sue scarpe.
(dal web)

NARCISO E BOCCADORO

Narciso si chinò lentamente verso di lui e fece quello che in tanti anni della loro amicizia non aveva mai fatto, sfiorò con le sue labbra i capelli e la fronte di Boccadoro. Questi si accorse di ciò che accadeva, prima con stupore, poi con commozione "Boccadoro", gli sussurrò all´orecchio "perdonami di non averlo saputo dire prima" Boccadoro sorrise lieto e imbarazzato e con voce calma e sottomessa disse: "Quando mi avevi liberato dalla forca e ritornavamo al convento, io ti chiesi notizie del mio cavallo Bless e tu me le desti. Allora vidi che tu, che di solito non distingui quasi nemmeno un cavallo dall´altro, ti eri interessato del mio. Compresi che l´avevi fatto per me e ne fui molto lieto. Ora vedo ch´era proprio così e che mi vuoi bene davvero.
Anch´io ti ho sempre voluto bene.

Narciso e Boccadoro (Hermann Hesse)

COME TRASCORRERE IL TEMPO

Un signore pregò Takuan, un insegnante di zen, di suggerirgli come potesse trascorrere il tempo. Le giornate gli sembravano molto lunghe, mentre assolveva le proprie funzioni e se ne stava seduto e impettito a ricevere l'omaggio della gente.
Takuan tracciò otto ideogrammi cinesi e li diede all'uomo:
Non si ripete due volte questo giorno
Scheggia di tempo una grande gemma.
Mai più tornerà questo giorno.
Ogni istante vale una gemma inestimabile.

RUVIDEZZA E AMBIGUITA'

Lascia che ti racconti una piccola storia. C’era una volta un giovane che sognava di ridurre il mondo a pura logica. Dal momento che era un giovane intelligente, ci riuscì davvero. E quando ebbe finito la sua opera, fece un passo indietro per ammirarla. Era meravigliosa. Un mondo purgato dall’imperfezione e dall’indeterminatezza. Infiniti acri di ghiaccio luccicante esteso all’orizzonte.

Così il giovane intelligente guardò il mondo che aveva creato, e decise di esplorarlo. Fece un passo avanti e cadde lungo disteso sulla schiena. Vedi, aveva scordato l’attrito. Il ghiaccio era liscio, livellato e immacolato, ma non ci si poteva camminare sopra. Così il giovane intelligente si sedette e pianse lacrime amare.

Ma mentre cresceva diventando un vecchio saggio, giunse a capire che la ruvidezza e l’ambiguità non sono imperfezioni. Sono quello che fa girare il mondo. Voleva correre e danzare. Le parole e le cose sparse sopra questo terreno erano tutte rovinate e offuscate e ambigue e il vecchio saggio vide che quello era il modo di essere delle cose.

Ma restava in lui una nostalgia per il ghiaccio, dove tutto era radioso e assoluto e inflessibile. Benché fosse riuscito ad apprezzare l’idea del suolo ruvido, non riusciva a convincersi a vivere lì. Così ora si trovava abbandonato tra terra e ghiaccio, e in nessuno dei due riconosceva la sua casa.”

(“Giustizia e comunità” di Antonella Besussi)

IL SEME

“Il seme non può sapere cosa accadrà, poiché il seme non ha mai conosciuto il fiore. E il seme non può neppure credere di avere la potenzialità di diventare un fiore meraviglioso. Il viaggio è lungo, ed è sempre più sicuro non affrontarlo mai poiché il sentiero è sconosciuto, nulla è garantito. Nulla può essere garantito. I rischi lungo il cammino sono infiniti, i trabocchetti in cui cadere moltissimi e il seme è al sicuro, nascosto all’interno del suo duro involucro. Ma il seme compie degli sforzi, fa tentativi; lascia cadere il rigido guscio che rappresenta la sua sicurezza, inizia a muoversi. E subito inizia la lotta: la battaglia col terreno, con le pietre e le rocce, il seme era duro, il germoglio sarà estremamente fragile e i pericoli saranno immensi. Per il seme non c’era pericolo, avrebbe potuto sopravvivere millenni, mentre per il germoglio i pericoli sono infiniti. Ma egli si lancia verso l’ignoto, verso il sole, la fonte di luce, senza sapere dove andare, senza sapere il perché. Pesante è il fardello da portare, ma un sogno possiede il seme ed egli va avanti. Il sentiero dell’uomo è simile, è arduo e richiede molto coraggio.” (filosofo indiano)

A CHI VUOI BENE, UOMO ?

- A chi vuoi più bene, enigmatico uomo, dì? A tuo
padre, a tua madre, a tua sorella, a tuo fratello?
- Non ho né padre, né madre, né sorella né
fratello.
- Ai tuoi amici?
- Adoperate una parola di cui fino ad oggi ho ignorato il senso.
- Alla tua patria?
- Non so sotto quale latitudine si trovi.
- Alla bellezza?
- L'amerei volentieri, ma è dea e immortale.
- All'oro?
- Lo odio come voi odiate Dio.
- Ma allora che cosa ami, straordinario uomo?
- Amo le nuvole...le nuvole che vanno...laggiù, laggiù...le meravigliose nuvole!
(Baudelaire, Lo straniero)

IL TRADIMENTO DEL PADRE

“Un padre, volendo insegnare al figlio a essere meno pavido, lo fa saltare dai gradini di una scala. Lo mette in piedi sul secondo gradino e gli dice: -Salta, che ti prendo.- Il bambino salta. Poi lo piazza sul terzo, dicendo: -Salta, che ti prendo.- Indi il padre lo sistema sul quarto, poi sul quinto, dicendo ogni volta: -Salta, che ti prendo-, e ogni volta il bambino salta e il padre lo afferra prontamente. A un certo punto il bambino è su un gradino molto in alto, ma salta ugualmente, come in precedenza; questa volta però il padre si tira indietro, e il bambino cade lungo e disteso. Mentre tutto sanguinante e piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: - Così impari, mai fidarti..., neanche se è tuo padre.” James Hillman in “Puer Aeternus”

venerdì 28 novembre 2008

ROMPERE UN BICCHIERE ?

Ho liberato una mano, ho preso un bicchiere e l'ho spostato sul bordo del tavolo.
"Cadrà" ha detto lui.
"Esatto. Voglio che tu lo faccia cadere."
"Rompere un bicchiere?"
Sì, rompere un bicchiere. Un gesto in apparenza semplice, ma che implica terrori che non giungeremo mai a comprendere appieno. Che cosa c'è di sbagliato nel rompere un bicchiere di poco valore, quando tutti noi, senza volerlo, abbiamo già fatto la stessa cosa nella vita?
"Rompere un bicchiere? " ha ripetuto. "Per quale motivo?"
"Posso spiegartelo, " ho risposto "ma, in verità, è solo così, per romperlo."
"Per te?"
"No, è chiaro".
Lui guardava il bicchiere sul bordo del tavolo, preoccupato che cadesse.
"È un rito di passaggio, come dici tu stesso" avrei voluto spiegargli. "È la cosa proibita. Non si rompono i bicchieri di proposito. In un ristorante, o nelle nostre case, ci preoccupiamo che i bicchieri non finiscano sul bordo del tavolo. Il nostro universo esige attenzione, affinché i bicchieri non cadano per terrà." "Eppure," pensavo ancora, "quando li rompiamo senza volerlo, ci accorgiamo che non è poi tanto grave. Il cameriere ci dice: "Non ha importanza", ed io non ho mai visto includere un bicchiere rotto nel conto di un ristorante.
Rompere bicchieri fa parte del caso della vita e non provoca alcun danno reale: né a noi né al ristorante né al prossimo".
Ho dato uno scossone al tavolo. Il bicchiere ha ondeggiato, ma non è caduto.
"Attenta!" ha detto lui, d'istinto.
"Rompi quel bicchiere" ho insistito io.
"Rompi quel bicchiere," pensavo, "perché è un gesto simbolico. Cerca di capire che io, dentro di me, ho rotto cose ben più importanti di un bicchiere e ne sono felice. Pensa alla lotta che divampa dentro di te e rompi questo bicchiere. Perché i nostri genitori ci hanno insegnato a fare attenzione con i bicchieri e coi i corpi. Rompi questo bicchiere, per favore, e liberaci da questi maledetti preconcetti, dalla mania che sia necessario spiegare tutto e fare solo quello che gli altri approvano."
"Rompi questo bicchiere" gli ho ripetuto.
Mi ha fissato negli occhi. Poi, lentamente, ha fatto scivolare la mano sul piano del tavolo, fino a toccare il bicchiere. Con un movimento rapido, lo ha spinto giù.
Il rumore del vetro infranto ha richiamato l'attenzione di tutti.
Invece di mascherare il gesto chiedendo scusa, lui mi ha guardato sorridendo e io ho ricambiato il gesto.
"Non ha importanza" ha esclamato il ragazzo che serviva ai tavoli.
Ma lui non lo ascoltava. Si è alzato e, mettendomi le mani tra i capelli, mi ha baciato.
(Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto. Paulo Coelho)

CAMBIARE STRATEGIA

Un giorno, un uomo non vedente stava seduto sui gradini di un edificio con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: "Sono cieco, aiutatemi per favore".Un pubblicitario che passeggiava lì vicino si fermò e notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello.Si chinò e versò altre monete. Poi, senza chiedere il permesso dell'uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un'altra frase.Quello stesso pomeriggio il pubblicitario tornò dal non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote.Il non vedente riconobbe il passo dell'uomo: chiese se fosse stato lui ad aver riscritto il suo cartello e cosa avesse scritto.Il pubblicitario rispose "Niente che non fosse vero. Ho solo riscritto il tuo in maniera diversa", sorrise e andò via.Il non vedente non seppe mai che ora sul suo cartello c'è scritto: "Oggi è primavera... ed io non la posso vedere." Cambia la tua strategia quando le cose non vanno bene e vedrai che sarà per il meglio.

domenica 26 ottobre 2008

L'ABITUDINE DI AMARE

Al mattino, lei lo guardò in maniera strana, con un rispetto strano, malinconico, e disse: "Sai George? Hai proprio preso l'abitudine di amare."
"Che vuoi dire, cara?"
Lei lo abbracciò con uno sguardo, e sorrise. "Tu vuoi qualcosa da tenere tra le braccia, ecco tutto. Che cosa fai, quando sei solo? Ti stringi a un cuscino?"
Egli non disse nulla; era ferito fin nel profondo del cuore. Quella frase, "l'abitudine di amare," causò una rivoluzione in George. Era vero, pensava. Era fuori di sè, disgustato dall'istintiva reazione alla carezza della pelle contro la sua, alla pressione di un seno. Gli parve di vedere Bobby sotto una luce del tutto nuova. Non l'aveva affatto conosciuta prima. La ragazzina incantevole era scomparsa, ed egli vide una giovane donna cauta e indurita dalle sconfitte e dai fallimenti, cui egli non aveva mai smesso di pensare. S'accorse che la tristezza celata dietro quegli occhi neri faceva parte della personalità di lei; scorse il primo barlume grigio tra i capelli lisci di lei, e s'accorse che la curva gonfia della sua guancia era l'inizio del dolce passaggio alla mezza età. Rimase inorridito del proprio egoismo. Ora, pensò, l'avrebbe conosciuta sul serio, e, in cambio, lei avrebbe cominciato ad amarlo.
Brano tratto da "L'abitudine di amare" di Doris Lessing

CASA DI BAMBOLA

NORA: Tu non pensi e non parli come l'uomo di cui possa essere la compagna. Svanita la minaccia, placata l'angoscia per la tua sorte, non per la mia, hai dimenticato tutto. E io sono tornata ad essere per te la lodoletta, la bambola da portare in braccio. Forse da portare in braccio con più attenzione perché t'eri accorto che sono più fragile di quanto pensassi. Ascolta, Torvald; ho capito in quell'attimo di essere vissuta per otto anni con un estraneo. Un estraneo che mi ha fatto fare tre figli...Vorrei stritolarmi! Farmi a pezzi! Non riesco a sopportarne nemmeno il pensiero! HELMER: Capisco. Siamo divisi da un abisso. Ma non potremmo, insieme... NORA: Guardami come sono: non posso essere tua moglie. HELMER: Ma io non ho la forza di diventare un altro. NORA: Forse, quando non avrai più la tua bambola.
Brano tratto da "Casa di bambola" d'Ibsen edito d Einaudi

domenica 21 settembre 2008

NON SI CAMBIA IL CUORE

In una notte gelida d'inverno, un lama buddhista trovò sulla soglia della porta un topolino intirizzito e quasi morto di freddo. Il lama raccolse il topolino, lo ristorò e gli chiese di restare a fargli compagnia. Da quel momento la vita del topolino fu piacevole. Ma nonostante questo, la bestiola non aveva l'aria felice. Il lama si preoccupò: "Che hai, piccolo amico?" gli chiese.
"Tu sei molto buono con me. E tutto nella tua casa è molto buono con me. Ma c'è il gatto...".
Il lama sorrise. Non aveva pensato al gatto di casa, un animale troppo saggio e troppo ben pasciuto per degnarsi di dare la caccia ai topi.
Il lama esclamò: "Ma quel bel micione non ti vuole certo male, amico mio! Non farebbe mai male a un topolino! Non hai niente da temere, te lo assicuro".
"Ti credo, ma è più forte di me" piagnucolò il topolino. "Ho tanta paura del gatto. Il tuo potere è grande. Trasformami in gatto! Cosi non avrei più paura di quella bestia orribile".
Il lama scosse la testa. Non gli sembrava una buona idea... Ma il topolino lo supplicava e allora disse: "Sia fatto come desideri, piccolo amico!".
E di colpo il topolino fu trasformato in un grosso gatto.
Quando morì la notte e nacque il giorno, un bel gattone uscì dalla camera del lama. Ma appena vide il gatto di casa, il gatto-topolino corse a rifugiarsi nella camera del lama e si infilò sotto il letto.
"Che ti succede, piccolo amico?" chiese il lama, sorpreso. "Avrai mica ancora paura del gatto?".
Il topolino-gatto si vergognò moltissimo. E implorò: "Ti prego trasformami in un cane, un grosso cane dalle zanne taglienti, che abbaia forte...".
"Dal momento che lo desideri ti accontento e così sia!".
Quando il giorno morì e si accesero le lampade a olio, un grosso cane nero uscì dalla camera del lama. Il cane andò fin sulla soglia della casa e incontrò il gatto di casa che usciva dalla cucina. Il gattone quasi svenne per la paura alla vista del cane. Ma il cane ebbe ancora più paura. Guaì penosamente e corse a rifugiarsi nella camera del lama. Il saggio guardò il povero cane tremante e disse: "Che ti succede? Hai incontrato un altro cane?".
Il cane-topolino si vergognò da morire. E chiese: "Trasformami in una tigre, ti prego, in una grossa terribile tigre!".
Il lama lo accontentò e, il giorno dopo, una enorme tigre dagli occhi feroci uscì dalla camera del lama. La tigre passeggiò per tutta la casa spaventando tutti, poi uscì nel giardino e là incontrò il gatto che usciva dalla cucina. Appena vide la tigre, il gatto fece un balzo terrorizzato, si arrampicò su un albero e poi chiuse gli occhi, dicendo: "Sono un gatto morto!".
Ma la tigre, vedendo il gatto, miagolò lamentosamente e fuggì ancora più veloce del gatto e corse a rifugiarsi in un angolo della stanza del
lama.
"Che bestia spaventosa hai incontrato?" gli chiese il lama.
"Io... io ho paura... del... gatto!" balbettò la tigre, che tremava ancora.
Il lama scoppiò in una gran risata. "Adesso capisci, piccolo amico" spiegò. "L'apparenza non è niente! Di fuori hai l'aspetto terribile di una tigre, ma hai paura del gatto perché il tuo cuore è rimasto quello di un topolino".

Bisogna sempre incominciare dal cuore.

Bruno Ferrero

PERDERE E VINCERE

Studiavo alla Scuola di Teatro, quando l'ex campione di pesi massimi, Mohammed Alì, decise di combattere con George Foreman per riconquistare il titolo. Non so per quale ragione, la boxe era uno sport molto popolare fra gli attori e i registi della scuola (credo che qualcuno politicamente corretto avesse detto qualcosa tipo: "Nella boxe i corpi dialogano veramente," e tutti ne eravamo rimasti affascinati).

Il giorno dell'incontro, uno dei professori della scuola mi chiamò: "Mohammed Alì vincerà," disse.

"Non credo," risposi. "In fin dei conti, George Foreman non ha mai perduto un incontro in tutta la sua vita."

"Proprio per questo," ribatté il professore. "Chi è stato al tappeto una volta, è molto più preparato a vincere di chi non ha mai perduto."

Qualche ora dopo, Alì riconquistò per la seconda volta il titolo. ( Paulo coelho )

LE DIFFERENTI PERCEZIONI

Un giorno un re riunì alcuni ciechi e propose loro di toccare un elefante per constatare come fosse fatto.
Alcuni afferrarono la proboscide e dissero: "Abbiamo capito: l'elefante è simile a un timone ricurvo".
Altri tastarono gli orecchi e dichiararono: "È simile a un grosso ventaglio".
Quelli che avevano toccato una zanna dissero: "Assomiglia a un pestello".
Quelli che avevano accarezzato la testa dissero: "Assomiglia a un monticello".
Quelli che avevano tastato il fianco dichiararono: "È simile a un muro".
Quelli che avevano toccato una gamba dissero: "È simile a un albero".
Quelli che avevano preso la coda dissero: "Assomiglia a una corda".
Ognuno era convinto della propria opinione. E, a poco a poco, la loro discussione divenne una rissa.
Il re si mise a ridere e commentò: "Questi ciechi discutono e altercano. Il corpo dell'elefante è naturalmente unico, e sono solo le differenti percezioni che hanno provocato le loro diverse valutazioni e i loro errori".
(parabola zen)

LA STAZIONE

"Nascosta da qualche parte nel vostro inconscio vi è una visione idilliaca. Ci vediamo in un lungo viaggio su tutto il continente. Viaggiamo in treno. Fuori del finestrino ammiriamo il passaggio a livello, bestiame al pascolo su una collina lontana, fumo che fuoriesce da una centrale termica, file su file di grano e di mais, pianure e valli, montagne e dolci colline, profili di città e ville nei paesini.

Ma dominante nella nostra mente è la destinazione finale. In un certo giorno a una certa ora entreremo nella stazione. Ci saranno bande musicali e sventolio di bandiere. Una volta arrivati lì, tanti sogni meravigliosi si avvereranno e i pezzi della nostra vita si completeranno a vicenda come un rompicapo portato a termine.

Con quale irrequietezza percorriamo i corridoi, maledicendo i minuti d'ozio, aspettando, aspettando, aspettando la stazione.
"Quando arriveremo in stazione, sarà fatta!" gridiamo. "Quando avrò diciotto anni." "Quando mi comprerò una Mercedes Benz nuova!" "Quando l'ultimo figlio avrà terminato l'Università." "Quando avrò finito di pagare il mutuo!" "Quando avrò la promozione." "Quando raggiungerò la l'età della pensione, vivrò felice e contento!".

Prima o poi dobbiamo renderci conto che non vi è nessuna stazione, nessun luogo a cui arrivare una volta per tutte. La vera gioia della vita è il viaggio. La stazione è soltanto un sogno. Ci distanzia sempre. "Assapora l'attimo fuggente." Non sono i fardelli di oggi a fare impazzire gli uomini. Sono i rimpianti di ieri e le paure di domani. Rimpianti e paure sono ladri che ci derubano dell'oggi.

Allora smettete di percorrere i corridoi e di contare i chilometri. Invece scalate più montagne, mangiate più gelato, camminate più spesso a piedi nudi, nuotate in più fiumi, ammirate più tramonti, ridete di più, piangete di meno. La vita deve essere vissuta a mano a mano che si procede. La stazione arriverà fin troppo presto."
(Robert J. Hastings : "La stazione")

AMARSI RECIPROCAMENTE

A un uomo fu dato il permesso di visitare il paradiso e l'inferno mentre era ancora in vita.
Andò prima all'inferno, e lì vide una grande accolta di persone sedute a lunghe tavolate, imbandite di cibo ricco e abbondante. Eppure queste persone piangevano e stavano morendo di fame. Il visitatore ben presto ne vide la ragione: i cucchiai e le forchette che usavano erano più lunghe delle loro braccia, cosicché costoro erano incapaci di portare il cibo alla bocca.
Poi l'uomo andò in paradiso e lì trovò la stessa situazione: lunghe tavolate imbandite con cibo di ogni genere; anche qui la gente aveva le posate più lunghe delle braccia e anche qui non poteva portare il cibo alla bocca; eppure avevano tutti l'aria di essere soddisfatti e ben nutriti. La spiegazione era semplice: anziché cercare di nutrire se stessi, si imboccavano reciprocamente. (R. Ferrucci)

UNA MACCHIA D'INCHIOSTRO

Un professore di filosofia sale in cattedra e, prima di iniziare la lezione, toglie dalla cartella un grande foglio bianco con una piccola macchia d'inchiostro nel mezzo.
Rivolto agli studenti domanda: "Che cosa vedete qui?".
"Una macchia d'inchiostro", rispose qualcuno.
"Bene", continua il professore, "così sono gli uomini: vedono soltanto le macchie, anche le più piccole, e non il grande e stupendo foglio bianco che è la vita". (V. Buttafava)

LA FACCENDA DEI QUADRI

A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, ‘notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce. E’ una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio… (Baricco)

PERCHE' COSI' DURO ?

“Perché così duro? - disse una volta il carbone al diamante: non siamo forse parenti stretti?”.
Perché così molli? Fratelli miei, questo io lo chiedo a voi: non siete forse - i miei fratelli?
Perché così molli, così cedevoli e arrendevoli? Perché nei vostri cuori è tanta negazione, rinnegamento? Così poco destino nel vostro sguardo?
E se non volete essere destini e inesorabili: come potreste un giorno, insieme a me - vincere?
E se la vostra durezza non vuole lampeggiare e scindere e tagliare: come potreste un giorno, insieme a me - creare?
Tutti i creatori infatti sono duri. E dovrà parervi beatitudine, premere la vostra mano su millenni come su cera;
- Beatitudine scrivere sulla volontà di millenni come su bronzo - più dura che bronzo, più nobile che bronzo. Solo le cose più nobili sono veramente dure.
“Questa nuova tavola, o miei fratelli, io pongo sopra di voi: divenite duri!”. (Così parlò Zarathustra, 3, 90)

sabato 9 agosto 2008

LA LUCE ED IL DIALOGO

Il serpente aveva appena guardato quella venerabile immagine quando il re prese a parlare e domandò: «Da dove vieni?». «Dai crepacci in cui abita l'oro» rispose il serpente. «Che cosa è più stupendo dell'oro?» domandò il re. «La luce» rispose il serpente. «Che cosa è più vivificante della luce?» domandò il primo. «Il dialogo» rispose il secondo. W. Goethe [Favola]

FAR DURARE UN AMORE

Una mamma e un bambino stanno camminando sulla spiaggia.Ad un certo punto il bambino chiede: "Come si fa a mantenere un amore?"La mamma guarda il figlio e poi gli risponde: "Raccogli un po' di sabbia e stringi il pugno..."Il bambino stringe la mano attorno alla sabbia e vede che più stringe piu' la sabbia gli esce dalla mano. "Mamma, ma la sabbia scappa!!!""Lo so, ora tieni la mano completamente aperta... "Il bambino ubbidisce, ma una folata di vento porta via la sabbia rimanente."Anche cosi' non riesco a tenerla!"La mamma sempre sorridendo: "Adesso raccogline un altro po' e tienila nella mano aperta come se fosse un cucchiaio...abbastanza chiusa per custodirla e abbastanza aperta per la liberta' "."Il bambino riprova e la sabbia non sfugge dalla mano ed e' protetta dal vento."Ecco come far durare un amore..."(Anonimo)

IL CUORE DELL'UOMO

Un giorno Dio si stancò degli uomini a causa delle loro continue richieste, spesso molto futili. Prese, conseguentemente, la decisione di nascondersi per un pò di tempo. Chiamò tutti i suoi Angeli consiglieri e chiese loro: "Dove mi debbo nascondere per non essere trovato? Qual'è il luogo migliore?" Gli Angeli consiglieri suggerivano i luoghi più disparati. Chi suggeriva la montagna più alta, chi l'abisso del mare più profondo, chi lo spazio celeste più remoto. Non contento dei luoghi suggeritigli chiese all'Angelo consigliere più anziano, che ancora non si era pronunciato: "Tu dove mi consigli di nascondermi?" L'Angelo anziano, sorridendo, rispose: "Nasconditi nel cuore dell'uomo! E' l'unico posto dove essi non vanno a vedere!"

DELUSIONE E SAGGEZZA

"Mi hai detto che sei stata spesso delusa" disse Nules ad un certo punto, "cosa ti ha delusa, mia cara?"
"Io non sono una ragazzetta, vedi bene, mio saggio principe, ma la vita trascorsa lungo le strade del mondo mi ha permesso di scrutare nell'animo umano, di vederne tutta la bellezza, la soavità, l'amore racchiuso, ma troppo spesso ho visto questi buoni sentimenti schiacciati dall'egoismo, dalla crudeltà, dall'ignoranza, e non ho imparato a rassegnarmi. Il mio cuore piange per un nonnulla. Non posso sentire una parola sgarbata, non posso sentire l'indifferenza che troppo spesso attanaglia l'uomo! Piango, mio caro Nules, quando una mano si tende ad invocare aiuto, e dall'altra parte c'è solo uno sguardo che evita di guardare, che non vuole vedere"

"Questa è la vita, piccola Arlina. Ogni uomo ha in sé il mondo intero, con tutte le sue grandezze e le sue miserie, con la sua bontà e le cattiverie!"

"Non lo accetto, mio principe, non voglio, non posso".

Arlina muoveva le mani , le stringeva a pugno e le apriva, le attorcigliava torturandole; era in preda ad una forte emozione e gli occhi s'erano riempiti di lacrime mentre la voce di andava incrinando.

"Non piangere, mia cara. Col tempo capirai che non possiamo cambiare l'uomo, che la sua bellezza sta proprio nella sua mutevolezza, nella sua possibilità di scegliere fra il bene e il male, ed anche quando sceglie il male è pur sempre un uomo, ma ci vuol tempo per capire. Tu sei ancora una piccola colomba ma un po' alla volta spunteranno anche a te artigli d'aquila, allora imparerai a perdonare chi sbaglia, perché anche tu sbaglierai".

"No, Nules, io non avrò mai artigli, né rostro, né voce di drago. Non potrei più viaggiare nel mondo con quel pesante fardello".

Il principe la guardava con occhi dolci. Anche lui era stato un ragazzo ed aveva sognato un uomo diverso, e aveva sofferto e penato, e pianto, ma gli anni gli avevano insegnato la tolleranza e quando aveva imparato a riconoscere e ad accettare le sue cattiverie e debolezze aveva trovato finalmente la serenità, ma non bastavano le parole per spiegare tutto questo ad un giovane cuore. Doveva trascorrere il tempo.
da: "Arlina e il regno fra i monti"

IL FALCHETTO ED IL VOLO

C'era una volta un falchetto convinto di saper volare, era nato in un piccolo allevamento caduto in rovina, per alcuni anni aveva vissuto con le altri falchetti addestrati da un bravissimo falconiere, in una piccola voliera poco fuori citta'. Tutti i falchi della voliera lo guardavano in modo strano, inutilmente, il povero falconiere aveva tentato di addestrarla, ma non era riuscito a piegarne l'indole, ed alla fine aveva desistito, era il suo ultimo esemplare e sfortuna aveva voluto che quell'ultimo addestramento fosse coinciso con il suo primo fallimento, ed all'inizio della sua sfortuna. Le altre bestiole dicevano che il falchetto non sapeva volare, questo perche' ogni volta che il povero falconiere lo portava assieme agli altri falchi per qualche esibizione, assicurandosi la zampetta alla cintola, una volta tolto il cappuccio, il falchetto rimaneva immobile sul suo braccio. Ah, si commiserava il falchetto, ricordava troppo bene la sensazione provata quando aveva spiccato il suo primo volo, il dolore provato nell'avere a disposizione tanto cielo, e dopo pochi colpi d'ala la delusione di essersi sentito richiamato a terra dal tendersi del filo, sentirsi prigioniero senza nessun confine da dover valicare, ed allora aveva deciso di non volare, nonostante le punizioni del falconiere, nonostante il suo urlare, nono stante le privazioni, non avrebbe accettato un'imitazione di liberta' condizionata al suo volere, non avrebbe mai accettato di tornare indietro al suo fischio pur avendo voglia di andare, non era volare quello, se ne infischiava di quello che dicevano gli altri falchi, che ne sapevano loro? Tutti intenti a guardare all'interno della voliera e a litigarsi i bocconi piu' buoni facendo inutili moine. Il caso volle che il falconiere assillato dai debiti vendette in blocco tutte le bestiole allo zoo della sua citta'. Fu cosi' che tutti i falchi furono immessi nell'immensa voliera insieme a tutti gli altri rapaci, il nostro falco scelse l'appoggio piu' vicino alla rete della voliera e rimase li' fermo, gli altri lo canzonavano motivando la sua immobilita' con il timore che il falco aveva per il volo, aggiungendo che ora era chiara e lampante a tutti la sua incapacita' al volo, che ora non c'era' nessuno a imporgli come volare, ora era libero, le sue eran tutte scuse. Lui rispondeva che quella era solo una gabbia piu' grande e che fuori di la' ce ne sarebbe stata un'altra ancora piu' grande, cosi' fino al confine del cielo, e che quindi non valeva la pena di darsi da fare per volare in cerchio stretti in maglie d'acciaio, per quanto potesse esser grande la voliera, non sarebbe mai stata grande abbastanza e non valeva la pena di volare per fuggire ad ogni ingresso del custode, oltre quella gabbia ce ne sarebbe stata un'altra, e poi un'altra... e allora perche' volare? Finche' un giorno passo di la' un falco, si poso' sulla rete e disse: " Ehi che fai la ' fermo perche' non voli? " e il falchetto racconto' la sua storia, ed il falco ascolto' attento alla fine aggiunse: "E tu in tutti questi anni perche' non sei fuggito per trovare i confini del cielo, per veder oltre l'ultima gabbia cosa c'e'?" Allora il falchetto ammise: "Non l'ho fatto perche' ho paura che quel che potrei trovare." Allora il falco aggiunse: " Allora il tuo confine è nel tuo cuore, finche' non troverai il coraggio di passare quel confine, non ha senso che tu lasci questa gabbia." Detto questo riprese il suo volo. Fu cosi' che un giorno, sul fondo della voliera, venne trovato il corpicino del falchetto, che in un'atto d'estremo coraggio aveva reciso la sua catena, fermando cio' che gli impediva di volare.
Morale: A volte siamo abili costruttori di gabbie che utilizziamo per difenderci dai sogni e dalla possibilita' di realizzarli...

(dal web)

IL VERO AMORE E' ACCETTAZIONE

Era una mattinata movimentata, quando un anziano gentiluomo di un'ottantinadi anni arrivó per farsi rimuovere dei punti da una ferita al pollice.Disse che aveva molta fretta perché aveva un appuntamento alle 9:00.Rilevai la pressione e lo feci sedere, sapendo che sarebbe passata oltreun'ora prima che qualcuno potesse vederlo.Lo vedevo guardare continuamente il suo orologio e decisi, dal momento chenon avevo impegni con altri pazienti, che mi sarei occupato io dellaferita.Ad un primo esame, la ferita sembrava guarita: andai a prendere glistrumenti necessari per rimuovere la sutura erimedicargli la ferita.Mentre mi prendevo cura di lui, gli chiesi se per caso avesse un altroappuntamento medico dato che aveva tantafretta.L'anziano signore mi rispose che doveva andare alla casa di cura per farcolazione con sua moglie.Mi informai della sua salute e lui mi raccontó che era affetta da tempodall'Alzheimer.Gli chiesi se per caso la moglie si preoccupasse nel caso facesse un po'tardi.Lui mi rispose che lei non lo riconosceva giá da 5 anni.Ne fui sorpreso, e gli chiesi 'E va ancora ogni mattina a trovarla anche senon sa chi é lei'?L'uomo sorrise e mi batté la mano sulla spalla dicendo: ''Lei non sa chisono, ma io so ancora perfettamente chi él ei"Dovetti trattenere le lacrime...Avevo la pelle d'oca e pensai: 'Questo é ilgenere di amore che voglio nella mia vita".Il vero amore non é né fisico né romantico. Il vero amore é l'accettazionedi tutto ció che é, é stato, sará e non sará.Le persone piú felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ció che hanno.

SOCRATE ED I SANDALI

Una volta i discepoli del grande filosofo Socrate fecero una colletta per compragli un paio di sandali nuovi, perché tutte le mattine Socrate andava al mercato con un paio di vecchi sandali.

Poi gli dissero:

- Maestro, accetta queste monete per comprarti un paio di nuovi sandali per andare al mercato. Quello che hai sono vecchi e rotti. Tu non ci chiedi niente per i tuoi insegnamenti, perciò accetta questa forma di gratitudine.
-
Socrate rispose:

- Io sono contentissimo di voi e dei miei vecchi sandali. Vado tutte le mattine al mercato per vedere quante cose si vendono e di cui non ho bisogno.

Per i discepoli fu una grande Lezione.

Quante volte si soffre per avere una cosa di cui non si ha bisogno.....
dal web

IMPOSSIBILI VOLI

Un giorno provai ad alzarmi in volo, provai l'ebrezza di lanciarmi nel vuoto, provai a sfidare le leggi della gravità, studiai e sperimentai tecniche nuove e cercai i luoghi e le correnti giuste ... ma le mie ali , al pari di quelle di Icaro, si sciolsero quando stavo per toccare il sole ....
Precipitai ... tentai di planare ma ... il mio atterraggio di fortuna riuscì a metà. Ora l'infinita gioia che pervase il mio cuore ha lasciato il posto al dolore e , quasi incapace di muovermi, sto pensando a dove ho sbagliato. Ripasso mille volte con la mente ogni istante, ogni secondo di quell'indimenticabile volo.
Forse ora è meglio che la smetta di ingannarmi. Forse ora è tempo che comprenda che le mie ali non mi porteranno mai più da nessuna parte. Forse è giunto il momento che capisca che queste ali, costruite con tanta pazienza ed infinito amore sono diventate inservibili. Queste ali, che mi hanno permesso di toccare il cielo sono diventate ormai solo un peso. Forse è giunta l'ora che mi rialzi e ricominci a camminare. Questa volta con i piedi ben saldi a terra. Dimenticando impossibili voli .
Evitando di guardare in alto ... evitando di guardare il sole e le stelle...
(anonimo)

UCCELLO IN GABBIA

A primavera un uccello in gabbia sa bene che c'è qualcosa a cui potrebbe servire, sente benissimo che ci sarebbe qualcosa da fare, ma non ci può far nulla, e cos'è questo? Non si ricorda bene, ha idee vaghe e dice: "Gli altri fanno i loro nidi e portano fuori i loro piccoli e li cibano" e poi sbatte il suo capino contro le grate della gabbia. Ma la gabbia resiste e l'uccello impazzisce dal dolore. "Guarda che fannullone", dice un altro uccello che passa là davanti, "quello è un tipo che vive di rendita''. Eppure il prigioniero continua a campare, non muore, fuori non appare nulla di quel che ha dentro, è in buona salute, e di tanto in tanto è allegro sotto i raggi del sole. Ma poi viene il tempo degli amori. Ondate di depressione. "Ma ha poi proprio tutto quel di cui ha bisogno?'' dicono i bambini che si prendono cura di lui e della sua gabbietta. E lui sta appollaiato con lo sguardo proteso verso il cielo, dove sta minacciando un temporale, e dentro di sè sente ribellione per la sua sorte. "Me ne sto in gabbia, me ne sto in gabbia, e non mi manca niente, imbecilli! Ho tutto ciò di cui ho bisogno! Ma per piacere, libertà, lasciatemi essere un uccello come gli altri!". Cosi, talvolta, una donna che non fa nulla assomiglia a un uccello che non fa nulla....
(Vincent Van Gogh)

LA PERSEVERANZA E LA TIGRE

Che cosa dovete fare se vi accorgete di non ottenere i risultati desiderati nella conquista? Perseverate nel comportamento giusto, perché alla fine produrrà frutti superiori alle vostre aspettative. “La pazienza è amara, ma dà un frutto dolce”, disse una volta Rousseau.
Un’antica favola coreana narra di una giovane sposa il cui marito tornò a casa dopo aver combattuto in guerra alcuni anni. Dopo il ritorno dalla guerra, l’uomo sembrava distaccato dalla vita e da lei; quando la moglie gli parlava, la ignorava, e quando le rivolgeva la parola era sempre con un tono di voce aspro. Andava in collera quando il cibo preparato dalla moglie non era esattamente di suo gradimento, e spesso lei lo sorprendeva a guardare nel vuoto con aria apatica e sofferente.
La donna si rivolse a un vecchio saggio, chiedendogli aiuto. Gli domandò se esisteva una pozione che facesse ridiventare suo marito l’uomo amorevole che era sempre stato. Il vecchio saggio le disse che prima era necessario procurarsi un pelo dei baffi di una tigre viva, che era l’ingrediente principale di quella pozione. La giovane donna era terribilmente spaventata alla prospettiva di tentare di procurarsi un baffo di tigre, ma l’amore per il marito e il desiderio che i loro rapporti tornassero quelli di un tempo la spinsero a tentare la ricerca dell’ingrediente necessario.
Di notte, mentre il marito dormiva, ignaro delle sue attività, scese dal letto per raggiungere a piedi una montagna vicina dov’era risaputo che vivesse una tigre. Lassù, munita solo di una ciotola di riso con sugo di carne, offrì il cibo alla tigre e la invocò in lacrime, supplicandola di avvicinarsi a mangiare. Da principio la tigre si limitò a ignorare i suoi richiami; ma la donna insistette, una notte dopo l’altra, avvicinandosi ogni volta di qualche passo.
Infine una notte erano a pochi passi di distanza l’uno dall’altra e rimasero a guardarsi negli occhi, senza che nessuno dei due sapesse che cosa riservava il futuro. Finalmente la giovane donna coraggiosa si ritirò davanti alla tigre. La notte successiva, la tigre mangiò dalla sua mano. La giovane donna era esultante ma cauta. Nei mesi successivi, ogni notte, non fece null’altro che tendere la mano ad ogni visita, per lasciare che la tigre si sfamasse.
Parecchio tempo dopo, una notte, la giovane donna guardò in fondo agli occhi della tigre che mangiava dalla sua mano e disse: “Oh, ti prego, prezioso animale, non uccidermi per quello che sto per fare!”. Poi, fulminea, strappò dal muso della tigre un pelo dei baffi.
Scese di corsa lungo il sentiero per recarsi subito all’abitazione del vecchio saggio, sollevata all’idea che la tigre le avesse permesso di allontanarsi liberamente. Quando arrivò, ansimante ed eccitata, il vecchio saggio, esaminò attentamente il pelo per controllare che fosse autentico. Quando se ne fu accertato, si girò e lo gettò nel fuoco, sotto gli occhi inorriditi della giovane donna. “Che cosa fai?” gridò lei.
Il vecchio saggio rispose con dolcezza: “Donna, un uomo è forse più crudele di una tigre? Hai visto che grazie alla pazienza, alla gentilezza e alla comprensione, si può domare persino una bestia feroce e selvaggia. Senza dubbio puoi ottenere lo stesso risultato con tuo marito”.

IL MAGO E LA BAMBOLA

In un angolo nascosto di un’antica e frenetica città resisteva una bottega. Una di quelle che non si sa bene come facciano a tirare avanti, giorno dopo giorno, dove il tempo deposita testimonianze polverose del passato, frammenti di vite che altrimenti non si sarebbero sfiorate mai. Uno di quei posti dove è piacevole entrare quando il sole, per le strade, brucia, dove l’ombra è preziosa e profumata e granelli di polline venuto da chissà dove danzano nell’unico raggio di luce che entra di sbieco e fa da meridiana. Tra teiere finto vittoriane, specchi d’argento anneriti e cartoline color seppia, sedeva in vetrina da tempo lunghissimo una bambola. Abiti e merletti di un’infanzia antica facevano contrasto con le labbra laccate color sangue e gli occhi tristi e fissi, le mani aperte e protese verso un’immaginaria madre e un’ombra ben distribuita di polvere sugli improbabili fiori del cappello di paglia. Aveva un’anima. E si chiedeva, lei, la bambola, quanto ancora sarebbe rimasta a guardar le mode correre e cambiare, la gente trafelata stringersi nelle giacche e nella quotidianità, quanti amanti ancora avrebbe spiato baciarsi nel vicolo, prima che qualcuno si innamorasse di lei, e la portasse via. E una mattina la serranda non si alzò, e il mondo non apparve. Il negozio fu messo in vendita per mancanza di eredi, e con esso tutto il suo contenuto, senza alcun prezzo aggiuntivo. La bambola, seduta al centro di un buio innaturale, non mutò mai posizione, rimase ferma ad ascoltare la vita fuori scorrere, ed imparò a riconoscere suoni e profumi filtrati, e continuò a sognare. Ma un mattino che era già primavera, come si scoprì in seguito, qualcuno entrò, certamente il nuovo proprietario. Il Mago, perché di un Mago si trattava, strizzò gli occhi feriti dal sole cercando di abituarsi all’oscurità fresca del locale, fece pochi passi avanti e si fermò a soppesare l’entità e l’effettivo valore del suo acquisto. Aveva occhi bellissimi, cristalli di neve azzurra, e un velo di passato sui capelli, e niente tra le mani, tranne la sua magia. Si accorse quasi subito della bambola. Sorrise di un sorriso che poteva soltanto appartenere a lui, si chinò a sfiorare il velluto del vestito tarlato e disse: “qui ci vuole proprio un po’ d’aria pulita, diamoci da fare”. E fu così che la bambola ascoltò per la prima volta la voce del Mago, e se ne innamorò. Arrivava ogni mattina portando con sé l’odore del pane fresco e del risveglio, spalancava la porta e cominciava l’opera di trasformazione del negozio. Apriva cassetti apparentemente chiusi a chiave da sempre, traendone oggetti luminosi e strani libri che la bambola non ricordava mai di aver visto tra gli articoli in vendita, con estrema delicatezza puliva ogni angolo e suppellettile, e intanto parlava. Raccontava alla bambola storie di paesi lontanissimi, di uomini dalla pelle ambrata e l’indole gentile. Le descriveva isole nate dal mare per incanto e spiagge affollate da venditori di fiori tropicali, e viaggi in mongolfiera, e storie di boschi e ninfe, e colori e suoni dei deserti africani, e lo faceva con quella sua voce bassa e musicale, ipnotica e danzante. La bambola, senza mai mutare d’espressione, di quella voce si nutriva, e percorreva strade e mondi che non sapeva neppure esistessero e giorno dopo giorno, cambiava. La porcellana diafana di cui era fatta, impercettibilmente mutava consistenza e densità, la stoppa dei capelli si faceva brillante, gli occhi acquistavano liquide movenze. La pelle divenne pelle finalmente, venandosi d’azzurro, prima accennato e poi pulsante, la stoffa del vestito cominciò a tendersi nella pienezza di un seno accogliente. Il Mago le parlava ed ogni sillaba nasceva per dar vita alla bambola che intanto cambiava e diventava infine donna, ancora immobile, ancora bambola, eppure donna. Cullata dal canto del Mago si abbandonava all’amore in quella sua ormai assurda fissità. E un giorno lui disse: “E’ tutto a posto ormai. E’ tutto pronto”. La donna che era stata di porcellana sentì la voce finalmente a un passo da lei e il fiato del Mago si posò sulle sue labbra ormai morbide e vive e fu quello il primo, vero respiro della bambola.
(dal web)

venerdì 8 agosto 2008

IL PASSEROTTO E L'AMORE

Ha detto che ballerà con me se le porterò delle rose rosse – si lamentava il giovane Studente – ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa. Dal suo nido lo ascoltò il passerotto, e si meravigliò: - Non ho una rosa rossa in tutto il mio giardino! – si lamentava lo Studente, e i suoi begli occhi erano pieni di lacrime. - Ah, da qual sciocchezze dipende la felicità! Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, ciononostante la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita! - Ecco finalmente un vero innamorato – disse il passerotto. – Notte dopo notte ho cantato di lui, nonostante non lo conoscessi: ho favoleggiato la sua storia alle stelle, e ora lo vedo. Il Principe da un ballo domani sera e la mia amata vi andrà. Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba. Se le porterò una rosa rossa la terrò fra le mie braccia ed ella piegherà il capo sulla mia spalla, e la mia mano stringerà la sua. Ma non c’è una rosa rossa in tutto il mio giardino, e così io siederò solo, ed ella passerà dinnanzi a me senza fermarsi. Non avrà nessuna cura di me. E il mio cuore si farà a pezzi. - Ecco certamente un vero innamorato – disse il passerotto. – Ciò che io canto, egli lo patisce, ciò che per me è gioia, per lui è pena. Davvero l’Amore è una cosa straordinaria. È più prezioso degli smeraldi e degli splendidi opali. Perle e granati non possono comperarlo, e non è in vendita. Non possono comprarlo i mercanti, né pesarlo le bilance dell’oro. Il passerotto comprendeva il segreto dolore dello Studente, e restava taciturno a pensare sul mistero dell’Amore. D’improvviso distese le sue ali e volò, si librò nell’aria. Passò attraverso il boschetto come un’ombra, e come un’ombra svolazzò sul giardino. Al centro dell’aiuola erbosa s’ergeva un bellissimo Rosaio, e non appena il passerotto lo vide volò sopra di lui e si posò su un ramo. - Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce. - Le mie rose sono rosse – rispose – Ma l’inverno ha ghiacciato le mie vene e il gelo ha dilaniato i miei boccioli, e l’uragano ha spezzato i miei rami, e non avrò più rose quest’anno. - Una sola rosa rossa è tutto ciò che ti chiedo! – urlò il passerotto. – Non c’è proprio nessun sistema per averla? - Un modo c’è – rispose il Rosario – ma è terribile che non ho il coraggio dirtelo. - Dimmelo – implorò il passerotto – io non ho paura.- Se vuoi una rosa rossa – disse il Rosaio – sei costretto a formarla con la musica al lume della luna, e colorarla col sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro una spina. Tutta la notte, e la spina deve trafiggere il tuo cuore, e il tuo sangue vivo deve scendere nelle mie vene e diventare mio. - La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa – si dolse il passerotto – e la vita è così cara a tutti. Ma l’Amore è più prezioso della Vita, e cos’è mai il cuore di un uccellino equiparato al cuore di un uomo? Così piegò le ali nel volo, e si librò nell’aria. Lo Studente era ancora steso nell’erba e il pianto non s’era ancora rasciugato dai suoi occhi. - Sii felice – gli urlò il passerotto. – Sii felice! Avrai la tua rosa rossa! Tutto ciò che ti chiedo in cambio è d’essere un vero innamorato, perché l’Amore è il più giudizioso della Filosofia, per quando saggia essa sia, e il più autorevole del Potere, per quando potente esso sia. Sono color di fiamma le sue ali, color di fiamma è il suo corpo. Le sue labbra sono dolci come il miele, e simile all’incenso è il suo alito. Lo Studente s’alzò, e trasse di tasca un taccuino e una matita. - Questa creatura ha stile. Disse a se stesso – è un fatto che non si può contestare, ma avrà inoltre sentimenti? Ho timore di no. In verità, è come la maggior parte degli esseri tutta forma, nessuna lealtà. Non si offrirebbe in sacrificio per gli altri. Pensa solamente alla musica, e tutti sanno che è egoismo. Bisogna in ogni modo ammettere che ha note incantevoli nella sua voce. Peccato che non significano nulla, e non abbiamo alcun’utilità pratica. E quando la Luna spiccò nei cieli il passerotto volò dal Rosaio, e pose il suo petto contro la spina. Tutta la notte cantò col petto contro la spina, e la fredda Luna di cristallo si chinò ad udirlo. Tutta la notte cantò, e la spina si spingeva sempre più profonda nel suo petto, e il suo sangue fluiva da lui. Prima cantò dell’amore che germoglia nel cuore di un fanciullo e di una fanciulla. E sul ramo più alto del Rosaio fiorì una rosa magnifica, petalo dopo petalo come nota dopo nota. Pallida era in un primo momento, come la nebbia pallida come le orme del mattino, e argentea come le ali dell’alba. - Premi più forte, piccolo passerotto – urlava il Rosario Così il passerotto premette più forte sulla spina, e più forte si fece il suo canto, cantava il venire al mondo della passione nell’anima di un uomo e di una donna. Una tenue striatura rosea si sparse nei petali del fiore. Ma la spina non era giunta al cuore dell’uccellino, e il cuore della rosa restava bianco, perché solo il sangue del cuore di un passerotto può invermigliare il cuore di una rosa. Così il passerotto premette più forte sulla spina, e la spina gli toccò il cuore, e un violento dolore lo trafisse. Più e più penoso era il dolore, e più e più selvaggio si faceva il canto, poiché ora cantava dell’Amore che è reso perfetto dalla Morte, e dell’Amore che non muore nella tomba. E la stupenda rosa diventò vermiglia, vermiglia la fascia dei petali intorno alla corolla, e vermiglio come il rubino era il suo cuore. Ma la voce del passerotto si fece più debole, e le sue ali iniziarono a sbattere, e un velo discese suoi occhi. Più e più debole si fece il suo canto, e qualche cosa lo soffocava in gola come un pianto convulso. Allora proruppe in un ultimo slancio di musica. La rosa rossa lo udì, e fremé tutta d’estasi, e aprì i suoi petali alla fredda aria del mattino. - Guarda! Guarda! – gridò il Rosario – la rosa è perfetta, ora! Ma il passerotto non rispose, perché stava steso morto nell’erba alta, con la spina nel cuore. A mezzogiorno lo Studente aprì la finestra e guardo fuori. - Che sbalorditivo colpo di fortuna! – disse con enfasi. – Una rosa rossa! Non ho mai visto una rosa come questa in tutta la mia vita. È così bella - si sporse e la colse. - Avevate promesso di ballare con me se vi avessi portato una rosa rossa – urlò lo Studente – ecco la rosa più rossa di tutto il mondo. La porterete stasera sul cuore e mentre danzeremo insieme vi dichiarerà quando vi amo. Ma la ragazza corrugò la fronte. - Temo che non sia adattata al mio vestito – rispose – e poi, il nipote del Ciambellano mi ha mandato in dono dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori. - In fede mia, siete davvero un’ingrata! – disse lo Studente in un impeto d’ira; e gettò la rosa giù nella strada. - Che balordaggine è l’Amore! – disse lo Studente andandosene. – Non è utile neppure la metà della Logica, perché non esprime nulla, promette sempre cose che non si concretizzano e fa credere in cose che non sono vere. In effetti, non è per niente pratico, e nel tempo in cui viviamo la praticità è tutto, e così si chiuse dentro nella sua stanza, prese dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.......

giovedì 31 luglio 2008

LA DISTANZA DEI PORCOSPINI

“Un gruppo di porcospini in una giornata fredda, si stringono vicini per proteggersi col loro calore. All’inizio stanno bene, ma dopo un po’ cominciano ad avvertire le spine degli altri, allora sono costretti ad allontanarsi per non sentire il dolore. Poi il bisogno di calore li spinge nuovamente a riavvicinarsi e ancora ad allontanarsi, così che i porcospini sono continuamente sballottati avanti e indietro, spinti dai due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione” (Schopenhauer, Parerga e Paralipomena).
Qui Fabio Volo (Un altro posto nel mondo) aggiunge: “Alcuni porcospini però sono in grado di produrre molto calore interno. Questi quindi riescono a trovare la giusta distanza dagli altri o addirittura a non stare con loro”

FELICITA' E DOLORE

Due uomini, entrambi molto malati, occupavano la stessa stanza d'ospedale. A uno dei due era permesso mettersi seduto sul letto per un'ora, ogni pomeriggio, per aiutare il drenaggio dei fluidi dal suo corpo ed il suo letto era vicino all'unica finestra della stanza. L'altro uomo doveva restare sempre sdraiato. Infine i due uomini fecero conoscenza e cominciarono a parlare per ore. Parlarono delle loro mogli e delle loro famiglie, delle loro case, del loro lavoro, del loro servizio militare e dei viaggi che avevano fatto.
Ogni pomeriggio l'uomo che stava nel letto vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando all'altro tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra. L'uomo nell'altro letto cominciò a vivere per quelle singole ore nelle quali il suo mondo era reso più bello e più vivo da tutte le cose e i colori del mondo esterno. La finestra dava su un parco con un delizioso laghetto.
Le anatre e i cigni giocavano nell 'acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo. Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c'era una bella vista della città in lontananza. Mentre l'uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l'uomo dall 'altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immagginava la scena.
In un caldo pomeriggio l'uomo della finestra descrisse una parata che stava passando. Sebbene l'altro uomo non potesse sentire la banda, poteva vederla con gli occhi della sua mente, così come l'uomo dalla finestra gliela descriveva. Passarono i giorni e le settimane.
Una mattina, l'infermiera di turno portò loro l'acqua e trovò il corpo senza vita dell'uomo vicino alla finestra, morto pacificamente nel sonno. L'infermierà diventò molto triste e chiamò gli inservienti per portare via il corpo.
Non appena gli sembrò opportuno, l'altro uomo chiese se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. L'infermiera acconsenti ben volentieri, e dopo il cambio di letto ed essersi assicurata che stesse bene, lo lasciò solo. Lentamente, dolorosamente, l'uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Si sforzò e si voltò lentamente per guardare fuori dalla finestra vicina al letto.
Essa si affacciava su un muro bianco
L'uomo chiese all'infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori di quella finestra. L'infermiera rispose che il suo amico morto era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. "Forse, voleva farle coraggio." disse.
Vi è una tremenda felicità nel rendere felici gli altri, anche a dispetto della nostra situazione. Un dolore diviso è dimezzato, ma la felicità divisa è raddoppiata.

CHI SEI ?

Uno si recò alla porta dell'amata e bussò. Una voce rispose: 'Chi è la?'. Egli rispose: 'Sono io'. La voce disse: 'Non c'è posto per Me e per Te'. La porta restò chiusa. Dopo un anno di solitudine e privazioni egli tornò e bussò. Una voce dentro chiese: 'Chi è la?'. L'uomo disse: 'Sei tu'. La porta si aprì per lui. J. Rumi.

L'importanze per le donne di dire NO e di mettere sè stesse al centro di una relazione.

MATRIMONIO IN CRISI

Quando un uomo, il cui matrimonio era in crisi, cercò il suo consiglio, il maestro disse: "Devi imparare ad ascoltare tua moglie".
L'uomo prese a cuore questo consiglio e tornò dopo un mese per dire che aveva imparato ad ascoltare ogni parola che la moglie dicesse.
Il maestro gli disse sorridendo: "Ora torna a casa e ascolta ogni parola che non dice". (ANTHONY DE MELLO)

IL PICCOLO PRINCIPE (capitolo XXI) di Antoine de Saint-Exupery

In quel momento apparve la volpe. "Buon giorno", disse la volpe. "Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. "Sono qui", disse la voce, "sotto al melo... " "Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino... " "Sono una volpe", disse la volpe. "Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, sono così triste... " "Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata". "Ah! scusa", fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: "Che cosa vuol dire "addomesticare"?" "Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?" "Cerco gli uomini", disse il piccolo principe. "Che cosa vuol dire "addomesticare"?" "Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?" "No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare?" "È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami... "Creare dei legami?" "Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo". "Comincio a capire" disse il piccolo principe. "C'è un fiore... credo che mi abbia addomesticato... " "È possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra... " "Oh! non è sulla Terra", disse il piccolo principe. La volpe sembrò perplessa: "Su un altro pianeta?" "Si". "Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?" "No". "Questo mi interessa. E delle galline?" "No". "Non c'è niente di perfetto", sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea: "La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano... " La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: "Per favore... addomesticami", disse. "Volentieri", disse il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose". "Non ci conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!" "Che cosa bisogna fare?" domandò il piccolo principe. "Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino... " Il piccolo principe ritornò l'indomani. "Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro,dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore. Ci vogliono i riti". "Che cos'è un rito?" disse il piccolo principe. "Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza". Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!" disse la volpe, "... piangerò". "La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi... " "È vero", disse la volpe. "Ma piangerai!" disse il piccolo principe. "È certo", disse la volpe. "Ma allora che ci guadagni?" "Ci guadagno", disse la volpe, "il colore ...del grano". Poi soggiunse: "Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto". Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. "Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo". E le rose erano a disagio. "Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perchè è lei che ho innaffiata. Perchè è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perchè è lei che ho riparata col paravento. Perchè su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perchè è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perchè è la mia rosa". E ritornò dalla volpe. "Addio", disse. "Addio",...disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi". "L'essenziale è invisibile agli occhi", ripetè il piccolo principe, per ricordarselo. "È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante". "È il tempo che ho perduto per la mia rosa... " sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. "Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa... " "Io sono responsabile della mia rosa... " ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

sabato 26 luglio 2008

LA FAVOLA DEL FIGLIO CAMBIATO

In un villaggio una donna piange la sua tragedia: le streghe le hanno rubato il figlio sostituendolo con un esserino deforme. Le amiche la confortano e la conducono da Vanna Scoma, una fattucchiera la quale assicura che il bambino si trova ben sistemato in una reggia e consiglia di non cercarlo. Passa qualche anno e gli avventori di un caffè del villaggio commentano l'arrivo di un principe, venuto in quel luogo per ritrovare la salute. Mentre gli uomini stanno discorrendo entra un giovane ottuso e deforme, chiamato Figlio di re: è il ragazzo che le streghe avevano lasciato nel villaggio. Tra le risate generale il giovane dichiara la sua discendenza reale, ma sopraggiunge la madre che afferma di riconoscere nel principe appena arrivato il suo vero figlio. Intanto i ministri che sono al seguito del principe commentano le cattive notizie giunte dalla corte: il re è ammalato e il popolo è in rivolta. Arriva Vanna Scoma e dichiara di sapere che il re è morto; il principe deve subito tornare in patria. Il principe intanto si accorge di essere spiato dalla donna e le chiede il nome; ella gli risponde solo di avere avuto un figlio che gli assomigliava e che questo poi le è stato rapito. Sopraggiunge Figlio di re che si getta contro il principe cercando di ucciderlo, ma costui riesce a evitare il colpo. Accorrono i ministri e insistono perché il principe parta e torni in patria; la donna però indica nel ragazzo deforme il vero erede al trono e il principe, stanco della vita di corte, invita i ministri ad accettare Figlio di re come loro sovrano: quando il mostricciattolo avrà in testa la corona sembrerà un vero re. Egli resterà povero, ma felice, con la donna che lo crede suo figlio.
(La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello)