giovedì 29 maggio 2008

MI ASPETTO CHE MI AMI PER CIO' CHE SONO E PER CIO' CHE DIVENTERO'

Il bambino chiamò per la terza volta e lei andò subito.L'editore, rimasto solo, aveva l'aria stanca. La testa gli cadde un poco da una parte, si rizzò, sorrise come di se stesso, poi permise al suo corpo di riafflosciarsi, alla schiena di tornar curva. La donna tornò indietro e gli si fermò davanti. Lui guardò su. Lei gli posò la mano sulla fronte e andò a sederglisi dirimpetto. Egli prese la sua mano, posata sul tavolo, e la baciò. Rimasero a lungo in silenzio.Lei disse: «Devo metterle un po' di musica?»L'editore scosse la testa, ma subito, come se si fosse aspettato la domanda. Tacevano di nuovo. L'editore: «Ma da lei il telefono non suona mai?».La donna: «Negli ultimi giorni quasi più. E d'inverno in genere di rado. Forse suonerà di nuovo in primavera?».Dopo un lungo silenzio, lei disse: «Adesso credo che Stefano si sia addormentato». E poi: «Se lei non fosse diventato per così dire il mio datore di lavoro, oserei farle capire come sono stanca».L'editore: «E a parte questo, la bottiglia è vuota».Si alzò, e lei lo accompagnò alla porta. Egli prese il cappotto ma rimaneva lì su due piedi, a testa china; poi si rizzò. Inaspettatamente lei gli tolse il cappotto di mano e disse: «Beviamoci ancora un bicchiere. Poco fa ho avuto la sensazione che ogni minuto che si è soli ci sfugga qualcosa che non si recupera più. Lei lo sa bene, la morte. Mi perdoni questa parola. In ogni caso, adesso mi ha fatto male. Spero che non mi fraintenda. In cucina c'è ancora una bottiglia di Burgunder. E' un vino pesante, e dopo si dorme bene».Erano in piedi nel soggiorno davanti la finestra e bevevano il vino rosso. Le tende non erano chiuse; guardavano fuori, in giardino, nevicava.L'editore raccontò:
« Poco tempo fa ho lasciato un'amica in un modo così strano che glielo vorrei raccontare. Era notte e viaggiavamo in taxi. Io la cingevo con un braccio e tutti e due guardavamo fuori, dalla stessa parte. Stavamo bene. Deve sapere che si trattava di una ragazza giovanissima, neanche vent'anni, e che io le ero molto attaccato. Ed ecco che di sfuggita, passando, sul marciapiede vidi un uomo che camminava. Non potei afferrare alcun particolare, la strada era troppo buia: vidi soltanto che l'uomo era giovane. E all'improvviso mi immaginai che la ragazza accanto a me, alla vista di quella figura là fuori, si fosse resa conto di stare dentro il taxi abbracciata ad un uomo tanto vecchio e che in quell'istante dovesse per forza provare ribrezzo di me! Questa fantasia fu per me un tale shock che ritirai immediatamente il braccio dalle sue spalle. A dire la verità, proseguii fin da lei, l'accompagnai fin sulla porta di casa, ma qui le dissi che non volevo vederla più. Feci la voce grossa, le intimai di scomparire, che ero stufo di lei, che era finita, e me ne andai di fretta. Sono sicuro che ancora oggi lei non sa perchè io l'abbia lasciata. E' probabile che alla vista del giovanotto sul marciapiede non abbia pensato proprio niente. Forse non l'ha nemmeno notato ».
Vuotò il bicchiere. Ora tacevano e guardavano fuori dalla finestra, e sotto passava di nuovo la vecchia col cane e faceva un cenno di saluto verso l'alto; adesso aveva l'ombrello aperto.L'editore disse: «E' stato bello con lei, Marianne. No, non bello: diverso».Andarono alla porta. L'editore: «Mi permetterò di far suonare qualche volta il suo telefono, anche se siamo ancora in pieno inverno».Sulla porta già aperta, quando lui aveva già addosso il cappotto, lei gli chiese se era venuto con la macchina; la neve turbinava dentro. L'editore: «Con un autista, sì. Mi aspetta in macchina».La donna: «L'ha fatto aspettare così a lungo?».L'editore: «Ci è abituato».La macchina era lì davanti alla porta; dentro c'era l'autista, nella semioscurità. La donna: «Ha dimenticato di darmi il libro che devo tradurre».L'editore: «E' in macchina».Fece un segno all'autista, che portò subito il libro.L'editore lo passò alla donna, che poi chiese: «Allora vuole mettermi alla prova?».L'editore, dopo una pausa: «Ora comincia la lunga stagione della sua solitudine, Marianne».La donna: «Da qualche tempo tutti mi fanno minacce». E all'autista lì accanto: «E lei, mi vuol minacciare anche lei?». L'autista sorrise imbarazzato.Era sola di notte in mezzo al corridoio, col libro in mano; sopra la sua testa le finestre del tetto scricchiolavano per la neve. Essa cominciò a leggere: «Au pays de l'idéal: j'attends d'un homme qu'il m'aime pour ce que je suis et pour ce que je deviendrai». Provò a tradurre: «Nel paese ideale: io da un uomo mi aspetto che mi ami per ciò che sono e per ciò che diventerò». Alzò le spalle.
[ Peter Handke, La Donna Mancina ]

mercoledì 21 maggio 2008

CONOSCERE SE STESSI

Immagina di essere in una stanza bianca, con le pareti bianche, il pavimento bianco, il soffitto bianco, e niente angoli. Immagina di essere sospeso in questo spazio bianco da una forza invisibile. Sei appeso lì, per aria. Non puoi toccare nulla, non puoi udire nulla, tutto ciò che vedi è bianco... Quanto credi di poter «resistere» nella tua esperienza?
"Non molto a lungo... Esisterei, ma non potrei conoscere nulla su me stesso. Molto presto impazzirei."
Esatto. Lasceresti la tua mente, in modo letterale. La mente è quella parte di te che ha il compito di ricavare un senso da tutti i dati che riceve e senza dati in arrivo non ha nulla da fare. Ora, nel momento in cui vai «fuori di testa», cessi di esistere nella tua esperienza. Ovvero, cessi di sapere qualunque cosa specifica su te stesso. Sei piccolo? Sei grande? Non puoi saperlo, perché non c'è nulla al di fuori di te con cui compararti. Sei buono? Sei malvagio? Non puoi saperlo. Non puoi neppure sapere se sei davvero lì, perché non hai punti ci riferimento. Puoi concettualizzare, certo, ma non puoi sperimentare nulla.Poi accade qualcosa che cambia tutto...Appare un puntino sulla parete, come se qualcuno lo avesse disegnato con una penna stilografica. Nessuno sa realmente come ha fatto quel punto ad arrivare lì, ma non ha importanza, perché è ciò che ti ha salvato...Ora ci sei tu, e c'è il Punto Sulla Parete.Improvvisamente puoi di nuovo prendere delle decisioni, puoi di nuovo fare delle esperienze. Il punto è lì, e ciò significa che tu devi essere qui. Il punto è più piccolo di te, quindi tu sei più grande di lui. Puoi cominciare di nuovo a definirti, in rapporto al Punto Sulla Parete. Il tuo rapporto con il punto diventa sacro, perché è stato lui a restituirti un senso di te stesso...Ora nella stanza arriva un gattino.Tu non sai chi sta provocando questi eventi, ma sei contento, perché ora puoi prendere altre decisioni. Il gatto sembra più morbido di te. Ma tu sembri più intelligente (almeno a volte!). E sei più forte.Nella stanza cominciano ad apparire altre cose e tu inizi a espandere la tua definizione di Te Stesso.Poi... finalmente comprendi: Solo in presenza di qualcos'altro puoi conoscere te stesso.Questo qualcos'altro è ciò che tu non sei. Perciò: in assenza di ciò che Non Sei... ciò che Sei... non é.Hai ricordato un'enorme verità e assumi l'impegno di non dimenticarla mai più. Ricevi a braccia aperte tutto ciò che arriva nella tua vita: persone, luoghi, cose. Non rifiuti nulla, perché ora sai che tutto ciò che appare nella tua vita è una benedizione: ti offre una nuova opportunità di definire chi sei e di conoscerti in quel modo.
la parabola della bianchezza di Neale Donald Walsch.

DISTACCO

Quando ero piccolo avevo un grosso problema.Ogni tanto mi faceva male la testa o la gola, e fin qui niente di strano: non era piacevole, ma è una cosa che capita a tutti e, come si dice, mal comune…C’era anche, però, un male che non era affatto comune; anzi, ce n’erano molti.Succedeva, per esempio, che mi facessero male i pantaloni, quando la mamma li metteva in lavatrice e quella specie di ventola che c’è lì dentro li sbatteva di qua e di là.Mi faceva male il gatto se qualcuno gli tirava la coda e mi faceva male la sedia quando ci si sedeva sopra lo zio Pasquale, che pesa più di un quintale e a momenti la sfonda.A un certo punto la mamma decise di portarmi dal dottore.Era un signore alto e tutto bianco, con degli occhiali così spessi che gli occhi neanche si vedevano.Mi fece sedere e sdraiare, mi tastò davanti e dietro, mi guardò con certi altri occhialiancora più spessi e finalmente si schiarì la voce e cominciò a spiegare.“Tutti quanti, disse, quando veniamo al mondo ci stacchiamo dal resto delle cose.Alcune cose rimangono nostre, come la testa e la gola, e altre cose - la maggior parte delle cose - no.Il gatto e i pantaloni e la sedia, per esempio, non sono nostri; o meglio, sono nostri nel senso che ce li possiamo tenere e se un altro li vuole ce li deve chiedere, ma non nel senso che fanno parte di noi come la testa e la gola.Ecco, questo è quel che capita a tutti, anzi a quasi tutti.Per motivi che nessuno comprende, ogni tanto nasce un bambino che non si stacca dal resto delle cose.”Io ero un bambino così: un cordino invisibile ma molto resistente mi legava al gatto e alla sedia, e anche alla pastasciutta e alla luna.Per farmi diventare come gli altri bisognava tagliare il cordino.Detto fatto, il dottore prese uno strumento invisibile ma molto resistente (che strumento fosse non lo so, perché non l’ho visto) e tagliò il cordino.Da allora va tutto bene. O forse dovrei dire: non va male.Non mi fanno più male i pantaloni quando la mamma li mette in lavatrice, o il gatto quando qualcuno gli tira la coda, o la porta quando il vento la sbatte con gran fracasso, e tutto sommato non mi dispiace di sentir male solo alla testa o alla gola.C’è anche qualcosa che mi dispiace, però.Prima, quando i pantaloni uscivano dalla lavatrice e la mamma li stendeva al sole, sentivo tutto quel caldo che mi scorreva dentro come una tazza di cioccolata d’inverno.Poi la mamma li ritirava nell’armadio fresco e profumato di lavanda, ed era come addormentarsi nell’erba, sotto ad un albero, dopo un pranzo all’aperto e tante corse dietro ad un pallone.Per non parlare di quando il gatto si accoccolava sulla sedia: il suo pelo morbido contro il cuoio liscio e vellutato.O quando la mamma sfogliava un libro e senza accorgersene accarezzava le pagine.Quelle carezze non le sento più, da quando se n’è andato il cordino.”
(La filosofia in quarantadue favole, Ermanno Bencivenga)

FARE CENTRO

Un grande maestro di tiro con l'arco organizzò una gara tra i suoi allievi per valutare il loro grado di preparazione. Nel giorno fissato, un bersaglio di legno con al centro un cerchìo rosso fu legato su un albero ad una estremità della radura. All'estremità opposta, fu tracciata sul suolo una linea, dietro la quale si piazzarono i concorrenti.Un giovane avanzò baldanzosamente, impaziente di dimostrare la sua abilità. Afferrò saldamente l'arco e una delle frecce, poi si sistemò in posizione di tiro."Posso tirare, maestro?" chiese.Il maestro che lo fissava attentamente gli domandò:"Vedi i grandi alberi che ci circondano?"."Si, maestro, li vedo benissimo tutt'intorno alla radura"."Bene", rispose il maestro, "torna con gli altri perché non sei ancora pronto".L'allievo, sorpreso, posò l'arco e obbedi.Un secondo concorrente si fece avanti, prese l'arco e la freccia e mirò con cura. Il maestro si portò di fianco all'arciere e gli chiese: "Puoi vedermi?"."Sì, maestro, posso vedervi. Siete qui vicino a me"."Torna a sederti con gli altri" rispose il maestro, "Tu non potrai mai colpire il bersaglio".Tutti i partecipanti, gli uni dopo gli altri, afferrarono l'arco e si prepararono a scoccare la freccia, ma ogni volta il maestro poneva loro una domanda, ascoltava la risposta e li rimandava al loro posto.La folla sorpresa cominciÒ a rumoreggiare. Nessuno degli allievi aveva tirato una sola freccia.Allora si fece avanti il più giovane degli allievi. Se n'era stato in disparte, silenzioso. Tese l'arco poi restò perfettamente immobile, gli occhi fissi davanti a lui."Vedi gli uccelli che sorvolano il bosco?" gli chiese il maestro."No, maestro, non li vedo"."Vedi l'albero sul quale è inchiodato il bersaglio di legno?""No, maestro. non lo vedo"."Vedi almeno il bersaglio?"."No, maestro, non lo vedo".Dalla folla degli spettatori si levò una risata. Come poteva quel ragazzo colpire il bersaglio se non riusciva nemmeno a distinguerlo dall'altra parte della radura?Ma il maestro impose il silenzio e domandò pacatamente all'allievo: "Allora, dimmi, che cosa vedi?"."Io vedo un cerchio rosso" rispose il giovane."Perfetto" replicò il maestro. "Tu puoi tirare".La freccia solcò l'aria sibilando leggera e si piantò vibrando nel centro del cerchio rosso disegnato sul bersaglio di legno.

LA STORIA DELL'AQUILA BIANCA

La grande aquila bianca vive più a lungo di qualsiasi altro uccello, anche fino a settant'anni. Ma per raggiungere quella veneranda età deve prendere la decisione più difficile di tutta la sua vita...La leggenda dice che a quarant'anni i sui artigli si fanno duri e più che mai affilati, le sue ali si accorciano e diventano molto pesanti e le sue piume s'assottigliano. Volare diventa un'impresa difficile. A quel punto l'aquila bianca ha due sole strade: o morire o confrontarsi con un doloroso rinnovamento che dura almeno sessanta giorni. Il processo di trasformazione consiste nel volare fino alle creste più alte della montagna e starsene lassù, in un nido, da dove per un po' non deve uscire. A questo punto l'aquila deve iniziare a sbattere il becco contro la nuda roccia, finché riesce a strapparselo. Dopo dovrà aspettare un po' fino a che le spunterà un rostro nuovo e lo userà per strapparsi le piume cresciute intorno agli artigli. Con gli artigli nuovi di zecca, si libererà di tutto il suo piumaggio vecchio e dopo qualche settimana di dolore sarà di nuovo in grado di affrontare un volo di rinascita, con ritrovata energia per almeno altri trent'anni.Molte volte nella nostra vita dobbiamo prenderci una pausa di riflessione, magari per leccarci le ferite, ed è allora che parte il processo di rinascita che ci permette di continuare a volare verso i nostri sogni, di liberarci dalle vecchie abitudini, dalle sofferenze che abbiamo patito, dalle tradizioni e dai ricordi che ci addolorano. Soltanto quando saremo liberi dal fardello del passato potremo trarre beneficio da ciò che ogni rinascita porta con sé. Non riusciremo mai a volare finché saremo legati dalle catene del passato
(dal web)

lunedì 12 maggio 2008

ASPETTANDO GODOT

Vivo tutti i miei giorni aspettando Godot, dormo tutte le notti aspettando Godot.
Ho passato la vita ad aspettare Godot.
Nacqui un giorno di marzo o d'aprile non so, mia madre che mi allatta è un ricordo che ho, ma credo che già in quel giorno però invece di poppare io aspettassi Godot.
Nei prati verdi della mia infanzia, nei luoghi azzurri di cieli e acquiloni, nei giorni sereni che non rivedrò io stavo già aspettando Godot.
L'adolescenza mi strappò di là, e mi portò ad un tavolo grigio, dove fra tanti libri però, invece di leggere aspettavo Godot.
Giorni e giorni a quei tavolini, gli amici e le donne vedevo vicini, io mi mangiavo le mani però, non mi muovevo e aspettavo Godot.
Ma se i sensi comandano l'uomo obbedisce, così sposai la prima che incontrai, ma anche la notte di nozze però, non feci nulla aspettando Godot.
Poi lei mi costrinse ed un figlio arrivò, piccolo e tondo urlava ogni sera, ma invece di farlo giocare un po', io uscivo fuori ad aspettare Godot.
E dopo questo un altro arrivò, e dopo il secondo un altro però, per esser del tutto sincero dirò, che avrei preferito arrivasse Godot.
Sono invecchiato aspettando Godot, ho sepolto mio padre aspettando Godot, ho cresciuto i miei figli aspettando Godot.
Sono andato in pensione dieci anni fa, ed ho perso la moglie acquistando in età, i miei figli son grandi e lontani però, io sto ancora aspettando Godot.
Questa sera sono un vecchio di settantanni, solo e malato in mezzo a una strada, dopo tanta vita più pazienza non ho, non posso più aspettare Godot.
Ma questa strada mi porta fortuna, c'è un pozzo laggiù che specchia la luna, è buio profondo e mi ci butterò, senza aspettare che arrivi Godot.
In pochi passi ci sono davanti, ho il viso sudato e le mani tremanti, e la prima volta che sto per agire, senza aspettare che arrivi Godot.
Ma l'abitudine di tutta una vita, ha fatto si che ancora una volta, per un momento io mi sia girato, a veder se per caso Godot era arrivato.
La morte mi ha preso le mani e la vita, l'oblio mi ha coperto di luce infinita, e ho capito che non si può, coprirsi le spalle aspettando Godot.
Non ho mai agito aspettando Godot, per tutti i miei giorni aspettando Godot, e ho incominciato a vivere forte, proprio andando incontro alla morte, ho incominciato a vivere forte, proprio andando incontro alla morte
(S.Beckett)

IL POZZO MAGICO

C’era una volta un uomo che voleva sapere quale significato dare alla sua vita. Si recò allora presso un pozzo magico che dava responsi sull’avvenire e gli pose la domanda. Il pozzo rispose:"A tre leghe verso nord troverai un villaggio dove, nella piazza principale, vedrai tre botteghe. Lì potrai trovare il significato della tua vita".
L’uomo si mise in cammino e arrivò alla piazza di quel villaggio e vide una bottega che vendeva fili metallici, l’altra placche metalliche e l’ultima oggetti di legno. L’uomo non capì e se ne andò sconsolato.
Anni più tardi, sempre con la stessa domanda interiore insoddisfatta, mentre di notte vagava per una foresta, udì un suono dolcissimo che lo commosse profondamente. Si avvicinò alla fonte del suono e in una radura illuminata da alcune torcie scorse un uomo che suonava un sithar. In quel momento si ricordò di quanto aveva detto il pozzo magico e del significato delle tre botteghe che vendevano separatamente i pezzi con cui era costruito un sithar. Allora non era ancora pronto, ma ora capì che la sua vocazione, era quella di divenire un musicista.

EREDITA'

Pola Bonilla modellava argilla per i bambini: Aveva una buona mano come ceramista ed era maestra di scuola nelle campagne di Maldonado:D'estate offriva ai turisti il suo vasellame e la cioccolata con le frittelle.Pola adottò un negretto nato nella povertà , dei molti che vengono al mondo senza una briciola da mangiare, e lo allevò come figlio suo. Quando lei morì, lui era già un uomo fatto e con un mestiere:Allora i parenti di Pola gli dissero : - Entra in casa e portati via quello che vuoi -
Lui uscì con la foto di lei sotto il braccio e se ne andò via lontano.
Eduardo Galeano Las palabras andantes

LASCIARE LIBERO DI VOLARE

C'era una volta un uccellino, con ali perfette e piume lucenti, colorate e meravigliose. Insomma un animale creato per volare in libertà nel cielo e rallegrare chiunque lo vedesse.
Un giorno, una donna vide questo uccellino e se ne innamorò. Stupefatta, si fermò a osservarne il volo con il cuore che batteva all'impazzata, e gli occhi brillanti di emozione. Lo invitò a volare vicino a lei, e insieme vagarono attraverso i cieli e le terre in perfetta armonia. Lei ammirava, venerava, celebrava quell'uccelllino.
Ma poi pensò: "E se volesse conoscere le montagne lontane?" Ebbe paura. Paura di non provare mai più quel sentimento con altri uccellini. E provò anche invidia: invidia per la sua capacità di volare.
Si sentiva sola.
E allora si disse:"Preparerò una trappola. La prossima volta che arriverà, non potrà più andare via!".
L'uccellino, parimenti innamorato, tornò il giorno seguente, cadde nella trappola e fu imprigionato in una gabbia.
Lei trascorreva ore a guardarlo, tutti i giorni. Era l'oggetto della sua passione e lo mostrava alle amiche, che dicevano:"Ma tu hai davvero tutto." Poi cominciò a verificarsi una strana trasformazione: visto che possedeva l'uccellino, e non aveva più bisogno di conquistarlo, lentamente perse interesse per lui. E l'uccellino, non potendo volare ed esprimere il senso della propria vita, a poco a poco deperì, la lucentezza delle sue piume svanì e divenne brutto. La donna non gli prestava più attenzione, se non per nutrirlo e pulirgli la gabbia.
Un giorno, l'uccellino morì. Lei ne fu profondamente rattristata e iniziò a pensare sempre a lui. Tuttavia non si ricordava della gabbia, rammentava soltanto il giorno in cui lo aveva visto per la prima volta, mentre volava felice fra le nuvole.
Se avesse osservato se stessa, avrebbe scoperto che ciò che l'aveva colpita in quell'uccellino era la libertà, l'energia delle sue ali in movimento, e non il suo corpo fisico.
Senza l'uccellino, la sua vita perse di significato, e la Morte andò a bussarle alla porta. "Perchè sei venuta?" le domandò lei.
"Per farti volare di nuovo insieme a lui nel cielo," rispose la Morte. "Se lo avessi lasciato partire e tornare, lo avresti amato e ammirato anche di più. Ora, invece, hai bisogno di me per poterlo rincontrare."
(Paulo Coelho -Undici minuti)

LE MAGICHE ROSE

Il principe ritornando a palazzo sosta presso la casa di un saggio sufi e gli espone il suo tormento e la sua tristezza. Il saggio gli dice: “ Quando vuoi vendicarti di qualcuno lasci solo che quel qualcuno continui a farti del male. Prima di tornare al tuo palazzo devi liberarti dai ricordi che ti tormentano.” e gli narra di un giardino agli antipodi del mondo, dove crescono delle rose magiche il cui profumo ha il potere di dare l’oblio. Il principe parte con i suoi fidi e durante i mesi e poi gli anni capitano avventure insolite, incontri strabilianti, battaglie vinte e perse, paesi e costumi meravigliosi, finché dopo sette anni di viaggio, in cui ha perso la maggior parte della sua scorta, rimanendo solo con pochi amici, giunge al giardino e scorge il cespuglio dove fioriscono le magiche rose. Si avvicina al cespuglio ma, improvvisamente si chiede. “Perché devo sentire il profumo di queste rose?”

mercoledì 7 maggio 2008

LE DUE PECCATRICI

Due donne si recarono da un saggio, che aveva fama di santo, per chiedere qualche consiglio sulla vita spirituale.Una pensava di essere una grande peccatrice.Nei primi anni del suo matrimonio aveva tradito la fiducia del marito. Non riusciva a dimenticare quella colpa, anche se poi si era sempre comportata in modo irreprensibile, e continuava a torturarsi per il rimorso.La seconda invece, che era sempre vissuta nel rispetto delle leggi, si sentiva perfettamente innocente e in pace con se stessa. Il saggio si fece raccontare la vita di tutte e due. La prima raccontò tra le lacrime la sua grossa colpa. Diceva, singhiozzando, che per lei non poteva esserci perdono, perché troppo grande era il suo peccato.La seconda disse che non aveva particolari peccati da confessare. Il sant'uomo si rivolse alla prima: «Figliola, vai a cercare una pietra, la più pesante e grossa che riesci a sollevare e portamela qui».Poi, rivolto alla seconda: «E tu, portami tante pietre quante riesci a tenerne in grembo, ma che siano piccole». Le due donne sì affrettarono a eseguire l'ordine del saggio. La prima tornò con una grossa pietra, la seconda con un'enorme borsa piena di piccoli sassi. Il saggio guardò le pietre e poi disse: «Ora dovete fare un'altra cosa: riportate le pietre dove le avete prese, ma badate bene di rimettere ognuna di esse nel posto esatto dove l'avete presa. Poi tornate da me». Pazientemente, le due donne cercarono di eseguire l'ordine del saggio. La prima trovò facilmente il punto dove aveva preso la pietrona e la rimise a posto. La seconda invece girava invano, cercando di ricordarsi dove aveva raccattato le piccole pietre della sua borsa. Era chiaramente un compito impossibile e tornò mortificata dal saggio con tutte le sue pietre. Il sant'uomo sorrise e disse: «Succede la stessa cosa con i peccati. Tu», disse rivolto alla prima donna, «hai facilmente rimesso a posto la tua pietra perché sapevi dove l'avevi presa: hai riconosciuto il tuo peccato, hai ascoltato umilmente i rimproveri della gente e della tua coscienza, e hai riparato grazie al tuo pentimento. Tu, invece», disse alla seconda, «non sai dove hai preso tutte le tue pietre, come non hai saputo accorgerti dei tuoi piccoli peccati. Magari hai condannato le grosse colpe degli altri e sei rimasta invischiata nelle tue, perché non hai saputo vederle».
(Piccole storie per l'anima)

LA COSA PIU' STUPEFACENTE

Nel Mahabharata, l'antico poema epico che dagli indù è venerato alla stregua d'una sacra scrittura, si legge l'episodio in cui il protagonista Yudhishtira, giunto sulle sponde d'un lago, vi trova i suoi quattro fratelli che giacciono al suolo privi di vita. Grande è il suo stupore per l'inspiegabile sorte dei fratelli, ma ancor più grande è la sete incontenibile dalla quale viene improvvisamente assalito. Mentre si china sull'acqua per bere, ode una voce soprannaturale che gli dice:
Voce dal lago: Prima rispondi alle mie domande, poi ti farò bere!
Yudhishtira: Chi sei? Io non ti vedo!
Voce: Rispondi!
Yudhishtira: Dove sei? Nell'aria? Nell'acqua?
Voce: Non sono né pesce né uccello. Ho abbattuto i tuoi fratelli perché hanno voluto bere senza rispondere alle mie domande.
Yudhishtira: Allora interrogami.
Voce: Che cosa è più veloce del vento?
Yudhishtira: Il pensiero.
Voce: Che cosa ricopre la terra?
Yudhishtira: L'oscurità.
Voce: Sono di più i vivi o i morti?
Yudhishtira: I vivi, perché i morti non ci sono più.
Voce: Fammi un esempio di spazio.
Yudhishtira: Le mie mani chiuse come una sola.
Voce: Un esempio di lutto.
Yudhishtira: L'ignoranza.
Voce: Di veleno.
Yudhishtira: Il desiderio.
Voce: Un esempio di sconfitta.
Yudhishtira: La vittoria.
Voce: Quale dei due è venuto prima? Il giorno o la notte?
Yudhishtira: Il giorno... ma era solo un giorno avanti!
Voce: Qual è la causa del mondo?
Yudhishtira: L'amore
Voce: Qual è il tuo opposto?
Yudhishtira: Me stesso.
Voce: Che cos'è la pazzia?
Yudhishtira: Una via dimenticata.
Voce: E la rivolta? Perché si rivoltano gli uomini?
Yudhishtira: Per trovare la bellezza, nella vita oppure nella morte.
Voce: Che cosa è inevitabile per tutti?
Yudhishtira: La felicità.
Voce: E qual è la cosa più stupefacente?
Yudhishtira: Ogni giorno la morte colpisce, e noi viviamo come se fossimo immortali. Questa è la cosa più stupefacente.

IL GUARDIANO DELLA LEGGE

Davanti alla legge si erge il guardiano della porta. A questo guardiano si presenta un campagnolo chiedendo di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che adesso non gli può concedere d’entrare. L’uomo riflette, poi domanda se gli verrà dunque permesso di entrare più tardi. «È possibile», dice il guardiano della porta, «ma adesso no». Siccome la porta della legge rimane, come sempre, aperta, e il guardiano si scosta, l’uomo si china per guardare nell’interno.
Il guardiano nota questo, ride e dice: «Se ti attira tanto, cerca un po’ di entrare nonostante il mio divieto. Ma rammentati di questo: io sono potente. E io sono soltanto l’ultimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, e ognuno è più potente dell’altro. Già l’aspetto del terzo è tale che nemmeno io lo posso sopportare».
Simili difficoltà, il campagnolo non se l’era aspettate; eppure la legge dovrebbe essere accessibile a tutti e sempre, pensa; ma ora, guardando più da vicino il guardiano nel suo mantello di pelliccia, col suo grande naso aguzzo, la lunga barba da tartaro sottile e nera, decide che sarà meglio attendere gli diano il permesso di entrare. Il guardiano gli porge uno sgabello e permette che si segga un po’ in disparte dalla porta. Là egli rimane seduto durante giorni e anni. Fa numerosi tentativi per essere ammesso, e stanca il guardiano con le sue suppliche. Spesso il guardiano gli fa subire piccoli interrogatori, gli pone domande sulla sua patria e su molte altre cose ancora, però son domande poste con indifferenza, domande da gran signore; e alla fine gli ripete sempre che non può lasciarlo entrare ancora. L’uomo, che si è ben attrezzato per il viaggio, adopera tutto, anche le sue cose più preziose, per corrompere il guardiano. Costui accetta tutto, in verità, però aggiunge: «Io l’accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». Durante tutti questi anni l’uomo osserva il guardiano quasi ininterrottamente. Egli dimentica gli altri guardiani, e questo primo gli sembra essere l’unico ostacolo. Maledice la mala sorte, nei primi anni senza riguardo e a voce forte, più tardi, invecchiando, borbotta soltanto fra i denti. Rimbambisce, e siccome, a forza di esaminare il guardiano durante tanti anni, ha finito anche col conoscere le pulci della sua pelliccia, prega anche le pulci di venirgli in aiuto mutando l’umore del guardiano.
Alla fine la sua vista s’indebolisce ed egli non sa se tutto si oscura intorno a lui o se sono soltanto gli occhi che lo ingannano. Ben riconosce però adesso nell’oscurità uno splendore incancellabile che scaturisce dalla porta della legge. Oramai non gli resta più molto da vivere. Prima della sua morte tutte le esperienze di tanti anni, accumulatesi nella sua testa, fanno nascere una domanda che sino a oggi egli non ha ancora posta al guardiano. Gli fa cenno con la mano, perché non riesce più a raddrizzare il suo corpo irrigidito. Bisogna che il guardiano si chini ben in basso, poiché la differenza di statura è mutata assai a svantaggio del campagnolo. «E che vuoi sapere ancora?» domanda il guardiano. «Sei insaziabile». «Tutti aspirano alla legge», dice il campagnolo, «com’è dunque che in tanti anni nessuno oltre a me abbia chiesto d’entrare?». Il guardiano capisce che l’uomo sta per spirare, e per farsi sentire ancora dal suo orecchio quasi sordo, ruggisce: «Qui nessun altro poteva entrare, poiché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora me ne vado e lo chiudo».
da FRANZ KAFKA, I Racconti,

LA META' DI UN SOGNO

C'era una ragazza che, ogni notte, guardava la luna. In quell'occhio del cielo dai riflessi d'argento le pareva di intravedere il profilo di un giovane sconosciuto. O forse era solo il riverbero misterioso di un sogno. La ragazza aspettava e sospirava.
Nell'altra parte del mondo, c'era un giovane che, ogni notte, guardava la luna. Su quel pallido schermo gli pareva di vedere il profilo dolce e seducente di una ragazza. Il giovane era un provetto arciere.
Così, una notte, incoccò la sua freccia più resistente e veloce sull'arco, lo tese con tutte le sue forze e mirò al volto placido della luna.
La freccia, dura come l'acciaio e rapida come il lampo, colpì la luna e ne staccò un frammento. Cadendo, il frammento si spaccò in due parti.
Una cadde in grembo alla ragazza, l'altra ai piedi del giovane arciere.
Tutti e due si legarono al collo, come un gioiello, il frammento di luna.
Si incontrarono poi? Forse.
Ma noi tutti, esseri umani, siamo come loro ed erriamo per il mondo portando ciascuno con sé la metà di un sogno.
(Bruno Ferrero)

IL PAPPAGALLO

C'era una volta un mercante che teneva un pappagallo in gabbia. Il suo lavoro lo indusse a partire per l'India, e allora chiese al suo pappagallo se avesse un qualche messaggio per i suoi simili di quel continente. Il pappagallo si limitò a rispondere: "Dì loro che me ne sto chiuso in una gabbia". Il mercante diede la sua parola di messaggero, e trasmise il messaggio al primo gruppo di pappagalli che incontrò sul suolo indiano. Udite quelle parole, uno di loro cadde a terra e ne morì immediatamente. Tornato in patria, il mercante accusò il pappagallo di averlo reso latore di un messaggio mortifero, ma appena ebbe ascoltato questo rimprovero anche il pappagallo del mercante cadde a terra morto, proprio come il suo simile indiano. A quel punto il mercante tolse il cadavere del pappagallo dalla gabbia e fece il gesto di gettarlo via, quand'esso riprese invece vita e fuggì volando, spiegando che il pappagallo indiano si era limitato ad indicargli la morte come via di fuga dalla gabbia.
di Maulana Jalaluddin Rumi

IL GUARDIANO DEL FARO

Raccogli una stella - disse il vecchio.
- Non ne vedo neanche una. E' mezzogiorno, e le stelle fanno capolino solo alla sera

- Dunque mi stai dicendo che le stelle esistono soltanto di notte?

- No, nient'affatto. Se ne stanno là, da qualche parte. Solo che non riesco a vederle

- Non sei ancora capace di attraversare i muri di cristallo, vero?

- Prego?

- Chiudi gli occhi, mia cara - suggerì l'Ammiraglio.

Lei li chiuse dolcemente.

- Durante il giorno, le stelle se ne stanno quatte quatte ad aspettare la notte per mostrare la luce. Ma loro
brillano sempre, di giorno e di notte. Che cosa vedi, Paola?

Paola sorrise. Aveva ancora gli occhi chiusi.

- Che cosa vedi?

Lei sorrise di nuovo
- Mi creda o no, Ammiraglio, ora guardo milioni e milioni di stelle!

- Le stelle aspettano la sera per mostrare la loro luce o sei tu a lasciarti trasportare dalla notte in pieno
giorno?

Il guardiano del faro strinse forte le mani di Paola nelle sue
- Tu hai appena attraversato un muro di cristallo. Non aprire gli occhi. Continua a fissare con la mente la tua
magnifica notte stellata. E fra tutte le stelle del tuo cielo, raccogline una e fa, che Ia tua vita diventi la
sua luce. Poi trasformala in una stella tanto speciale, tanto bella che tutte le stelle del cielo per un attimo
smettano di brillare, soltanto per un istante, al solo cospetto di tanta luminosità

- L'ho presa! - gridò Paola.

- Bene! - rispose l'Ammiraglio - Ora è tua, per sempre. Dipenderà soltanto da te mantenerla viva e brillante
per il resto della vita, giorno e notte. Lei sarà lì per te, sempre. Anche quando la tempesta è forte, e la
tavola da surf si schianta contro gli scogli. E anche quando t'innamori e impari ad amare, quando ti specchi
in lui e lui in te... lei è sempre là. Ma più di tutte le altre - precisò l'uomo - la tua stella brillerà quando ti
lascerai trasportare sulle ali dei tuoi sogni.

- Proprio come la luce del suo faro - osservò lei.

(tratto da: Il guardiano del faro")

DUE AMICI

Molti anni fa, in Cina, vivevano due amici. Uno era molto bravo a suonare l'arpa. L'altro era dotatissimo nella rara arte di saper ascoltare.
Quando il primo suonava o cantava di una montagna, il secondo diceva: "Vedo la montagna come se l'avessimo davanti".
Quando il primo suonava a proposito di un ruscello, colui che ascoltava prorompeva: "Sento scorrere l'acqua fra le pietre".
Ma un brutto giorno, quello che ascoltava si ammalò e morì.
Il primo amico tagliò le corde della sua arpa e non suonò mai più.
Esistiamo veramente se qualcuno ci ascolta. Il dono più grande che possiamo fare ad una persona è ascoltarla "veramente".
(dal web)

UNDICI MINUTI

Guadagno 350 franchi svizzeri per passare un’ora con un uomo. Sto esagerando. Se togliamo il levarsi i vestiti, l’accennare qualche falsa tenerezza, il dire qualche frase ovvia e rivestirsi, ridurremo questo tempo a undici minuti di sesso vero e proprio.
Undici minuti. Il mondo gira intorno a qualcosa che dura solo undici minuti. E a causa di questi undici minuti in un giorno di 24 ore (ammettendo che tutti facciano l’amore con le proprie mogli, tutti i giorni, il che è una vera e propria assurdità e una menzogna totale), gli uomini si sposano, mantengono la famiglia, sopportano il pianto dei bambini, si dilungano in spiegazioni quando arrivano tardi a casa, guardano decine, centinaia di altre donne con le quali vorrebbero passeggiare intorno al lago di Ginevra, comprano abiti costosi per sé, e abiti ancora più costosi per le donne, pagano prostitute per compensare ciò che manca loro senza neppure sapere che cosa sia, alimentano una gigantesca industria di cosmetici, diete, ginnastica, pornografia, potere - e quando si trovano con altri uomini, al contrario di quanto si dice comunemente, non parlano mai di donne. Parlano di lavoro, di soldi e di sport. C’è qualcosa di molto sbagliato nella civiltà.

( diario di una prostituta tratto da:" Undici minuti")