lunedì 30 giugno 2008

L'AMORE DI ARISTOFANE

Uno dei passaggi più importanti del Simposio di Platone è il discorso di Aristofane, il qualr introduce il mito dei tre sessi originari, tagliati a metà per volere di Zeus. Secondo il mito, i progenitori dell’umanità erano persone rotonde, con faccia doppia su un’unica testa e membra doppie, appartenenti a tre diversi generi, maschio, femmina e androgino, ormai scomparso, che partecipava di entrambi i precedenti. Creature forti e arroganti, essi si avventurarono in una guerra contro gli dei, che per punirli e renderli più deboli li tagliarono in due parti. Da allora ogni metà brama di ricongiungersi all’altra, nel tentativo di ricostituire l’antica natura. Si spiegano così gli amori della donna per l’uomo, della donna per la donna, dell’uomo per l’uomo, tutti accomunati dall’affannoso desiderio di ristabilire un legame che, se viene riallacciato, costituisce un’inesauribile fonte di felicità e armonia.
Anticamente, infatti, la nostra natura non era la stessa di ora, ma differente. Anzitutto, invero, i generi dell’umanità erano tre, e non due – come adesso –, il maschio e la femmina; piuttosto, c’era inoltre un terzo genere, partecipe di entrambi i suddetti, di cui ora rimane il nome, ma esso, come tale, è scomparso. A quel tempo infatti l’androgino era un’unità, e partecipava, per aspetto e per nome, di entrambi, il maschio e la femmina, ma ora non è se non un nome, di intenzione oltraggiosa. In secondo luogo la forma di ogni uomo era, tutta quanta, arrotondata, con il dorso e i fianchi disposti in cerchio; ciascuno aveva quattro mani, e gambe in numero uguale alle mani, e, sopra un collo tornito circolarmente, due volti, in ogni punto simili; aveva poi un’unica testa per entrambi i volti, situati l’uno all’opposto dell’altro, e quattro orecchi, e due organi genitali, e tutte le altre parti, secondo ciò che si potrebbe raffigurare partendo da queste. Ed essi potevano anche camminare diritti, come ora, in quale delle due direzioni volessero; oppure, quando si avviavano velocemente in corsa – come volteggiano in cerchio gli acrobati, che fanno ruotare completamente le gambe – appoggiandosi sulle estremità, che allora erano otto, si muovevano rapidamente in cerchio. E i generi erano tre, e di tale natura, per la seguente ragione: il maschio era in origine progenie del sole, la femmina della terra, e il genere partecipe di entrambi era progenie della luna, poiché anche la luna partecipa del sole e della terra; essi stessi, dunque, erano sferici, e circolare il loro procedere, per la somiglianza con i loro genitori. Così, erano terribili per il vigore e la possanza, nutrivano propositi arroganti, e tentarono un attacco contro gli dei; e ciò che Omero dice di Efialte e di Oto – il tentativo di dare la scalata al cielo, per assalire gli dei – si adatta a quelli. Zeus e gli altri dei, orbene, si consultavano su ciò che dovessero fare, ed erano in difficoltà: non sapevano decidersi, invero, né ad ucciderli e, fulminandoli come i Giganti, fare scomparire la schiatta – sarebbero in tal caso scomparsi gli onori e i sacrifici che potevano giungere loro da parte degli uomini – né a lasciarli infuriare. Dopo faticose riflessioni, Zeus dichiara: “Ho un mezzo, credo, perché gli uomini possano esistere, eppure abbandonino la sfrenatezza, una volta divenuti più deboli. Ora infatti” disse “taglierò ciascuno di loro in due, ed essi da un lato saranno più deboli, e d’altro lato saranno al tempo stesso più utili a noi, per l’accrescersi del loro numero; e cammineranno eretti, su due gambe. Ma se ancora pretenderanno di infuriare, e non vorranno rimanere tranquilli, una seconda volta” disse “li taglierò in due, cosicché cammineranno su una gamba sola, saltellando”. Ciò detto, tagliò gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe per metterle in conserva, o come quelli che tagliano le uova con un capello; e man mano che tagliava qualcuno, ordinava ad Apollo di rovesciare verso il lato del taglio il volto e la metà del collo, perché l’uomo, contemplando la propria sezione, fosse più moderato, e comandava di risanare tutto il resto. E quello rovesciava il volto, e raccogliendo e tirando da ogni parte la pelle su ciò che oggi è chiamato ventre – come le borse che si chiudono tirando a questo modo – manteneva una sola apertura e la stringeva fortemente nel mezzo del ventre, il che appunto viene chiamato ombelico. E spianava quasi tutte le numerose rugosità, e foggiava le varie parti del petto, con uno strumento simile a quello con cui i calzolai spianano sulla forma delle scarpe le rugosità del cuoio; ne lasciò tuttavia alcune, proprio quelle attorno al ventre e all’ombelico, perché fossero un vestigio dell’antico evento. Allora, una volta divisa in due la natura primitiva, ciascuna metà, bramando la metà perduta che era sua, la raggiungeva; e avvincendosi con le braccia e intrecciandosi l’una con l’altra, per il desiderio di fondersi assieme, perivano di fame e, anche per il resto, di inazione, perché non volevano fare nulla l’una separata dall’altra. E ogni volta che una delle metà moriva, mentre l’altra rimaneva in vita, la superstite cercava un’altra metà e si intrecciava con essa, sia che si imbattesse nella metà di una donna tutta intera – la metà appunto che ora chiamiamo donna – sia che si imbattesse in quella di un uomo. E così perivano. Ma Zeus, mosso da pietà, appresta un altro artificio, e sposta sul davanti i loro genitali – sino allora, infatti, avevano anche questi sul lato esterno, e generavano e partorivano, non già gli uni verso gli altri, ma sulla terra, come le cicale –, spostò dunque a questo modo i loro genitali sul davanti, e mediante questi stabilì la generazione tra di loro, attraverso il maschio nella femmina, con lo scopo che, nell’abbraccio, se un uomo si imbatteva in una donna, generassero e si producesse la stirpe, e al tempo stesso, se un maschio si imbatteva invece in un maschio, sorgesse almeno la sazietà di quella congiunzione, e facessero pausa, e si volgessero all’agire, e si curassero del resto della vita. Da un tempo così remoto, dunque, è connaturato negli uomini l’amore degli uni per gli altri; esso ricongiunge la natura antica, e si sforza di fare, di due, uno, e di guarire la natura umana. Ciascuno di noi è quindi un complemento di uomo, in quanto è stato tagliato – come avviene ai rombi – da uno in due: ciascuno, dunque, cerca sempre il proprio complemento. Tra gli uomini, orbene, tutti quelli che sono una parte tagliata dal genere congiunto, che allora si chiamava appunto androgino, si rivolgono con desiderio alle donne, e da questo genere derivano, per la massima parte, gli adulteri; del pari da questo genere discendono tutte le donne desiderose degli uomini e le adultere. Quanto poi alle donne formate dalla sezione di una donna, esse non prestano per nulla attenzione agli uomini, ma si rivolgono piuttosto verso le donne, e da questo genere nascono le tribadi. Tutti quelli, infine, formati dalla sezione di un maschio, inseguono i maschi, e sin tanto che sono fanciulli, essendo frammenti del maschio, amano gli uomini, e godono di giacere assieme agli uomini, avvinti strettamente ad essi; e tra i fanciulli e gli adolescenti, questi sono i più eccellenti, in quanto sono per natura i più coraggiosi. Certo, alcuni affermano che essi sono degli spudorati, ma dicono il falso: non è per spudoratezza, infatti, che si comportano così, bensì per ardimento, coraggio e virilità, attaccati a ciò che è simile a loro. E di questo c’è una prova importante: giunti alla maturità, infatti, soltanto gli uomini di tale natura si dimostrano adatti alla politica. Quando sono diventati uomini, inoltre, amano i fanciulli, e non si interessano del matrimonio e della procreazione dei figli, per loro natura, ma vi sono costretti dalla legge: a loro basta, piuttosto, passare la vita assieme, senza nozze. Un tale individuo, dunque, diventa in tutti i modi sia amante dei fanciulli, sia innamorato degli amanti, attaccandosi sempre a ciò che gli è affine. Orbene, quando l’amante dei fanciulli, o qualsiasi altro, si imbatta appunto in quella che è la propria metà, allora precisamente essi sono sopraffatti in modo mirabile dall’affetto, dall’intimità e dall’amore; e non vogliono, se così si può dire, separarsi l’uno dall’altro, neppure per breve tempo. E coloro che trascorrono assieme tutta la vita sono individui, che non saprebbero neppure dire cosa vogliono ottenere l’uno dall’altro. Nessuno invero potrà credere che si tratti del contatto dei piaceri amorosi, ossia che in vista di ciò l’uno si rallegri di stare vicino all’altro, con uno slancio così grande: è evidente, al contrario, che l’anima di entrambi vuole qualcos’altro, che non è capace di esprimere; di ciò che vuole, piuttosto, essa ha un presentimento, e parla per enigmi. E se, mentre giacciono accostati, Efesto comparisse dinanzi a loro, con i suoi strumenti, e domandasse: “Che cos’è, uomini, ciò che volete ottenere l’uno dall’altro?”, e se, di fronte al loro imbarazzo, di nuovo li interrogasse: “Forse è questo che desiderate, l’accostarvi quanto più è possibile l’uno all’altro, così da non rimanere staccati, né di notte né di giorno, l’uno dall’altro? se desiderate questo, voglio fondervi e saldarvi in qualcosa di unico, in modo che, da due che siete, diventiate uno, e finché rimarrete in vita, viviate entrambi in comunione, come un essere solo, e quando sarete morti, ancora laggiù, nella dimora di Ade, siate uno in luogo di due, in comunione anche da morti; guardate dunque, se tale è l’oggetto della vostra passione, e se vi appagate di raggiungere questo”: noi sappiamo che neppur uno di costoro, udendo ciò, rifiuterebbe, o manifesterebbe di volere qualcos’altro; ciascuno, piuttosto, riterrebbe senz’altro di aver udito proprio quello che da gran tempo agognava: diventare – congiungendosi e confondendosi con l’amato – da due uno. La causa di ciò, invero, è che la nostra natura antica era cosiffatta, e noi eravamo interi: alla brama e all’inseguimento dell’interezza, orbene, tocca il nome di amore. E in precedenza, come ho detto, eravamo un’unità, mentre adesso, per avere agito male, siamo stati dispersi dal dio, come gli Arcadi dai Lacedemoni. C’è dunque da temere, se non ci comportiamo bene verso gli dei, di essere spaccati ancora una volta, e di andare in giro come se fossimo le figure modellate di profilo, in bassorilievo, sulle stele, segati a metà lungo la linea del naso, trasformati in contrassegni, come i due frammenti di un dado spezzato. Proprio per questo bisogna esortare ogni uomo ad agire con riverenza riguardo agli dei, in tutti i punti, al fine, da un lato, di sfuggire a qualcosa, e, d’altro lato, di cogliere qualcosa, secondo che ci guida e ci comanda Eros. Nessuno agisca contro di lui – contro di lui, peraltro, agisce chiunque si renda odioso agli dei – poiché, se diventiamo amici del dio e ci riconciliamo con lui, scopriremo e incontreremo proprio i nostri fanciulli, il che accade a pochi degli uomini di oggi. Ed Erissimaco non mi faccia una ritorsione, irridendo il mio discorso, come io mi riferissi a Pausania e ad Agatone: anch’essi invero fanno forse parte dei suddetti, e sono forse entrambi – quanto alla natura primitiva – maschi. Ma in realtà io, riferendomi a tutti, sia uomini sia donne, dico che la nostra schiatta diverrebbe felice, nel caso in cui portassimo l’amore al suo compimento, e ciascuno incontrasse la giovane persona amata che è sua, ritornando alla natura antica. E se questo è l’ottimo, è necessario altresì che tra le cose oggi alla nostra portata sia ottima quella che più vi si approssima, e tale è l’incontro con una persona amata, la cui natura si accordi coi nostri desideri.

NON C'ERA SCRITTO NIENTE A PAGINA 32

Non c'era scritto niente a pagina trentadue. Non c'era scritto neanche "32". Pagina trentadue era completamente bianca. Il capitolo uno finiva a pagina trentuno e, siccome l'editore non voleva cominciare il capitolo due sulla pagina a sinistra, lo aveva cominciato a pagina trentatre', e pagina trentadue l'aveva lasciata bianca. Tutti gli altri capitoli finivano sulla pagina a sinistra, cosi' non c'era bisogno di lasciare quella pagina bianca, e pagina trentadue era l'unica pagina del libro.Non è bello essere l'unica pagina bianca di un libro.Un libro è come un piccolo paese, staccato dal resto del mondo. La maggior parte del tempo se ne sta per conto suo sullo scaffale, e solo la copertina ha contatti con l'esterno: con altre copertine ma anche con il sole e la polvere, e ogni tanto con una mosca loquace che porta notizie da fuori. Se lo si tira giu' dallo scaffale, è raro che lo si apra: magari si vuole solo mostrarlo a qualcuno, cosi' è sempre la copertina che si gode il mondo. Anche quando lo si apre, ogni pagina ha diritto a pochi minuti di luce, e nello sforzo di sfruttarli il piu' possibile capita spesso che cada in confusione e dopo non si ricorda piu' niente. "Quante persone c'erano sedute a leggermi: due o tre? E stavano proprio parlando di me? E gli piacevo? Non ho capito, non ce l'ho presente e forse non mi succedera' piu'".Stando cosi' le cose, le pagine di un libro parlano soprattutto fra loro. E, non avendo molto da dire, parlano soprattutto una dell'altra. Potete immaginare dunque quante se ne debba sentire una pagina bianca. "Guarda quella: non ha neanche il numero.""Se non fosse per la pagina a fianco, non saprebbe neanche chi è." "Se ne potrebbe benissimo fare a meno." "Serve solo ad aumentare il prezzo." Eccetera eccetera. Non che queste cose te le vengano a dire in faccia, ma il posto è piccolo e prima o poi ti capita di sentirle. Pagina trentadue aveva tanta pazienza e non protestava mai, ma soffriva molto.Un giorno arrivo' il padrone con suo figlio: un bimbo piccolo e irrequieto, che certamente avrebbe fatto danni. Tutte le copertine erano preoccupate. Molte pero' tirarono un sospiro di sollievo quando il padre disse: "Aspetta, ti do io un libro che puoi strappare. Ecco: prendi questo, tanto non serve." Il libro era quello con la pagina bianca, e in men che non si dica il bimbo lo ridusse ad un mucchio di fogli. Le pagine erano offese e stupefatte, ma le loro avventure non erano finite. A un certo punto il padre si mise a cercare in mezzo ai fogli, prese la pagina bianca e ci fece un aeroplanino. Lo fece lasciando il bianco di fuori, perche' gli sembrava piu' bello, cosi' pagina trentuno (che era scritta a meta', essendo la fine del capitolo uno) non poteva vedere niente di quel che succedeva. Poi arrivo' la mamma e disse: "Che cosa avete combinato? Mettete in ordine!". Le altre pagine finirono nel camino e le loro preziose parole diventarono cenere. Pagina trentadue invece ando' a volare in giardino e vide alberi e farfalle, ed ebbe tutto il tempo per guardare bene. E questo perche' a pagina trentadue non c'era scritto niente. Non c'era scritto neanche "32".
(la filosofia in 42 favole di Ermanno Bencivenga)

IL MILLEPIEDI

C'era una volta un millepiedi viveva felice un giorno incontrò la rana e la rana gli chiese:-Come fai a mettere i piedi uno davanti all'altro senza inciampare?- Il millepiedi ci pensò e da quel momento non fu più in grado di camminare
(favola zen)

AMARE PER PERDERSI

C'era un innamorato che amava senzasperanza. Si ritirò del tutto nella propria animae gli parve che il fuoco d'amore l'avrebbeconsumato. Perdette il mondo, non vedeva piùil cielo azzurro e il verde bosco, il torrenteper lui non frusciava, l'arpa per luinon suonava, tutto era sprofondatoe lui era caduto in miseria. Ma il suo amorecresceva, e lui avrebbe preferito moriree rovinarsi piuttosto che rinunciare al possessodella bella donna che amava. Sentì allorache il suo amore aveva bruciato in lui ogni altracosa, e l'amore divenne potente e tirò e tirò,e la bella donna dovette obbedire.Venne, e lui era lì a braccia aperte per attirarlaa sé. Ma quando gli fu davanti si era del tuttotrasformata, e con un brivido egli sentì e videche aveva attirato a sé tutto il mondo perduto.Era davanti a lui e gli si arrendeva,cielo e bosco e torrente, tutto gli veniva incontroin nuovi colori, fresco e splendido,gli apparteneva, parlava il suo linguaggio.E invece di conquistare soltanto una donnaegli aveva tra le braccia il mondo intero,e ogni stella del cielo ardeva in cui e scintillavavoluttà nella sua anima. - Aveva amatoe amando aveva trovato se stesso.Ma i più amano per perdersi."
(Hermann Hesse)

LE MELE ACERBE

"Pazienza, posso aspettare, è come con le mele acerbe”
"Le mele acerbe?"
"Una volta, quando ero molto piccolo, mi sono arrampicato su un albero e ho mangiato delle mele verdi, acerbe. La pancia mi si gonfiò e divenne dura come un tamburo. Mi faceva molto male. La mamma mi spiegò che se avessi aspettato che le mele fossero mature, non mi sarebbe successo niente. Così, adesso, quando desidero molto qualcosa, penso alle mele."

[Il cacciatore di aquiloni – K. Hosseini]